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Raccontare Nannarella 1985

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Con Daniela Rotunno
Profilo di Anna Magnani
In 2 tempi e 14 giorni

 

“Io sono presuntuosa, ma non credo di recitare. Io non recito, anzi, reci8to male se provo a recitare. Io vivo quello che faccio, o credo di viverlo, che è lo stesso”
Anna Magnani

PERSONAGGI

A – L’attrice che “racconta” Anna Magnani
B – Un attore
Quattro musicisti, che suonano i seguenti strumenti:
pianoforte
contrabbasso
violino
tromba/sax
I musicisti intervengono e danno voce – se non corpo – ai vari personaggi evocati

Le canzoni

I tempo
“Reginella”
“Qui nel cuor”
“Quando meno e l’aspetti”
“Signorinella pallida”
“La bella Angelica”
“Quant’è bello far l’amore quand è sera”
“Stornelli romani”
“I sette veli”
“Se mi volessi bene veramente”

II tempo
“Canta se la vuoi cantar”
“Prens garde à Tchou-Thin-Tchou ”
« Trastevere da quando t’ho lasciato »
“Chitarra romana”
“Dietro Castel Sant’Angfelo”
“Stornellata romana”
“Ballade de Barberie”
“Ballade de mai”
“Stonerlli di Mamma Roma”

PRIMO TEMPO

La scena
Una camera di ampie dimensioni, con vetrate sul fondo. E’ il salone della casa di A., l’attrice che “racconta” la Magnani. I mobili, vecchiotti e di buon gusto, sono stati addossati alle pareti laterali, anche un po’ confusamente. Il tappeto è stato arrotolato, tirato su e messo da parte, contro la parete di fondo. L’atmosfera dell’ambiente è da “facciamo quattro salti”, quando cioè si libera uno spazio in salotto per improvvisare una festa danzante; oppure, come in questo caso, quando per comodità, o per altre ragioni, si prova uno spettacolo in casa della protagonista. Insomma, l’arredo così sistemato fa sentire la provvisorietà del gioco del teatro.

I Giorno
Prologo: Roma

A: Entra in controluce e si muove da un lato all’altro del palcoscenico, sul fondo, attraversando tutta la scena. Piove dall’alto una voce registrata: può anche essere la voce di Fellini, dal film “Roma”.

VOCE: Questa signora che rientra a casa, costeggiando il muro di un antico palazzotto patrizio, è un’attrice romana: Anna Magnani, che potrebbe anche essere un po’ il simbolo della città…
A: (lo interrompe) Che so’ io?!
VOCE: Una Roma vista come lupa e vestale…
A: (sempre più meravigliata) De che?!
VOCE: … Aristocratica e straccionesca, tetra, buffonesca. Potrei continuare fino a domattina…
A: A Federi’, ma va’ a dormì, va’!
VOCE: Posso farti una domanda?
A: No… Nun me fido. Buonanotteee!
(Esce.
Entrano i quattro musicisti. Ordinati e compunti sistemano i loro strumenti in silenzio. Il pianista si siede dietro il pianoforte ed esegue il motivo di “Reginella”.
Rientra A., questa volta in piena luce. Cammina).
A: (si rivolte al pianista, con il quale ha un dialogo che, evidentemente, continua da tempo) Va bene così? Come ti sembra la camminata? Voglio dire: è chiaro quello che deve arrivare allo spettatore? Io… vorrei che fossero evidenti fin da questo breve prologo le mie intenzioni… si tratta di denunciare al pubblico, subito, che in questo spettacolo non vedrà Anna Magnani – manco in cartolina – e neanche una che “impersona” la Magnani. Vedrà solo un’attrice… me… che tenterà di “raccontare” Anna Magnani. Perciò la camminata è importante. Nel senso che io non sto qui ad imitare la camminata della Magnani. E che ne so poi, io, come camminava? Io cammino come cammino io. Aspetta: mò rifaccio la camminata. (rifà la camminata) che dici? Non dici niente?... Meglio così.
Il motivo di “Reginella” s’è fatto più forte.
A: (intonandosi, canta)
Reginella piccina adorata
Non sei più la mia dolce sartina
Povertà ti faceva regina
Poi con gli agi il tuo regno svanì!
Ma perché, ma perché t’ho incontrata
Mia piccina, ridotta così…?1

Or che lontano son da te
Or che lontana sei da me
Noi non ci amiamo più
Ma spesso tu
Distrattamente pensi a me!

Reginella ricordi i bei giorni
Di miseria di pene e di baci
Sogni d’oro lontani e fugaci
Sogni d’oro sognati con te…
Torna aprile ma tu non ritorni
“Reginella ha tradito il suo R2!”
(smette di cantare, parla) Mi piace questa canzone, è così stupita. Me la insegnò mia nonna. Che personaggio fantastico mia nonna: era ‘n angelo, una forza, il fuoco, la dolcezza, il velluto. L’adoravo, e lei stravedeva per me. Era una donnina minuta e fragile, ma a me sembrava enorme. Rideva sempre e parlava, parlava, parlava di tutto e di niente, ma soprattutto dei suoi capelli bianchi… La nonna mi aveva già vista recitare in teatro, al saggio finale della Reale Scuola di Recitazione Eleonora Duse: e aveva pianto per la commozione. Piangeva sempre. Un giorno mi accompagnò alla Stazione Termini, io dovevo partire per la mia prima tournée di attrice. Guardavo dal finestrino il suo viso piccolo, i suoi capelli nascosti nello scialletto nero… In quel momento capii che non l’avrei più rivista. Morì sei mesi dopo. Io tornai a casa ma non volli vederla nel suo letto di morte. Mi chiusi in un’altra stanza, sola. (canta riprendendo “Reginella”)
Te sei fatta ‘na veste scullata
Nu cappiello cu ‘e nastro e cu ‘e rrose…
Tatata ta tatata tatata
Ta ta ta tata ta tata tatà!
Ta tatà ta tatà ta tatatata
Ta tatata tatata tatà…?
T’aggio voluto a bene a te
Tu m’hai voluto bene a me
Mò non ci amiamo cchiù
Ma spesso tu
Distrattamente penz’a me!
(parlato) Ma quale Alessandria d’Egitto! Io so’ romana, de Campitelli! Mia madre era romagnola e mio padre calabrese. In Egitto mia madre ci andò che io ero ancora piccola, e mi lasciò dalla nonna, a Roma. Mia madre aveva diciotto anni e non era sposata: a quell’epoca era uno scandalo, così lei mollò tutto e se ne andò in Egitto. Mio padre? E chi l’ha mai conosciuto, quer fijo de ‘na mignatta? Sì, qualche ricerca l’ho fatta, in Calabria. Ma poi ho scoperto che di cognome faceva Del Duce, e ho lasciato perde. Nun m’annava d’esse chiamata “la fiha der Duce!” (ride, con risata contagiosa. Scompare in quinta)

II Giorno
Signora, la cena è servita

A rientra. Ha in testa un berretto con le piume.

A: Il teatro è per me soprattutto odore. E’ l’odore del panino con la mortadella, è odore di grasso, è odore di unto. E’ l’odore del sudore nei camerini di provincia. E’ l’odore vischioso d’amore nei lenzuoli non cambiati delle pensioncine. E’ l’odore di muffa del teatro vuoto… Il teatro è anche colore: il colore dei costumi stinti. Il teatro è il rubinetto del lavandino che sgocciola, la notte. E’ lo squallore della stanza ammobiliata. E’ la prova fra una sosta e l’altra. Fare teatro è come viaggiare, si cambia sempre paesaggio. Il teatro è non riuscire più a dormire. E’ sentirsi nel cervello, inchiodato, il motivo musicale dello spettacolo. Il teatro è il “trac”, la paura dell’andata in scena. Il teatro è la pioggia, è il water intasato. Il teatro è dire ogni sera, per mesi e mesi: “Signora, la cena è servita”.
(Effetto luci: Teatro)
Quella sera si recitava “Una partita a scacchi” di Giocosa. Si recitava nel senso che la recitavano gli altri: io avevo solo una battuta. Gli altri erano gli attori della Compagnia di Dario Niccodemi: Vera Vergani, il volto bianchissimo, la bocca rossa nell’ovale perfetto: una gran signora, beata lei, e una primattrice… e Luigi Cimara, elegante, fatuo, un po’ blasé… e poi i brillanti, i caratteri… Io dovevo dire: “Il Conte di Frombone sollecita la visita del mio nobile padrone”. Nient’altro: una sola battuta, ma che battuta! Senza scherzi: vi sembra facile, vero? Beh, provatevi a dirla… (si interrompe. Al pianista) Scusa, è qui che mi rivolgo al pubblico, no? No. Non è qui. Peccato. Mi piace qui, mi sento naturale… mi sembra spontaneo cercare a questo punto la complicità degli spettatori. Lo faccio qui. Poi, semmai, cambiamo… Dov’ero? Ah… provatevi a dirla: “Il Conte di Frombone sollecita la visita del mio nobile padrone”. Non ci riuscirete mai. Sembrano versi ma non lo sono, però c’è la rima. Senza contare che viene fatto di pensare a quella canzonaccia che fa: (canta) “Il Marchese di Castellombrone / quel coglione / quel coglion!” (ride. Riprende la narrazione) Sono lì tra le quinte che rimugino la mia battuta e mi guardo: come m’hanno conciata! Ho in testa un ridicolo berretto con le piume. Porto i pantaloncini con lo sbruffo e ci ho le calze a due colori. Io che all’accademia facevo parti da protagonista, qui interpreto un paggio! Le mie povere gambe secche sono ficcate una dentro una calza gialla, l’altra in una calza grigia. Mi sento molto infelice, me faccio pena. Entro per dire la mia battuta. Mi scatta detto “Il Conte di Fossombrone”: m’interrompo, penso: non è Fossombrone, è Frombone, mò che faccio?... M’impappino, non riesco ad andare avanti, scoppio a piangere e scappo in quinta. Per evitare il vuoto di scena mi riporta dentro il caratterista Ruggero Lupi, che sarebbe il Conte di Frombone in persona, quel coglione… Il pubblico applaude per simpatia, ma io sono convinta che la mia carriera d’attrice è finita per sempre… (getta via il cappello con le piume) E invece no. Continuo a recitare un po’ alla volta si accorgono di me. Entro nella compagnia di Antonio Gandusio. Gandusio mi stima e un po’ mi… diciamo protegge. Mi fa fare l’attrice giovane, la brillante, la prima brillante. Ormai sono sfacciata. La timidezza se n’è andata insieme alla verginità. Mi piace il contatto diretto con il pubblico. Passo alla rivista, divento soubrette, diva del Varietà. Lavoro con i fratelli Guido e Giorgio de Rege…
(Ricostruisce uno sketch dei fratelli De Rege solo servendosi di una bombetta: la poggia sul capo per interpretare Guido, se la calca sul naso per fare Giorgio.
A: interpreta Guido: passeggia nervosamente, aspettando il “cretino” che evidentemente è in ritardo. Finalmente lo avvista)
A GUIDO: Vieni avanti, cretino! A quest’ora arrivi? Con più di due ore di ritardo?
A GIORGIO: Io… sssono puntualissimo!
A GUIDO: Ma come, puntualissimo… Dovevamo vederci alle undici meno dieci e ti presenti adesso.
A GIORGIO: Che ore sssono?
A GUIDO: Le due!
A GIORGIO: Dodici meno dieci quanto fa?
A GUIDO : Due.
A GIORGIO: E ora sssono le due. Lo vedi che ssono puntuale?
(A: getta il cappello. Musica: un motivetto anno Quaranta).

III Giorno
Fotogenia

VOCE: (di Goffredo Alessandrini) Convinciti, Anna mia. La tua vera strada è il palcoscenico. Al cinema, più che bravura, ci vuole fotogenia. E non sei fotogenica.
A: A me ‘sta parola me fa ‘mpazzì! Ma che cosa vuol dire, fotogenica? Che è ‘sta fotogenia? E’ qualcosa di speciale? Che cosa ha di speciale Elisa Cegani? E Viarisio? Eppure lavoriamo tutti e tre nel tuo film! Tu, Goffrè, sei regista: ma sei anche mio marito. E che me dici, come marito e come regista? Che nun so’ fotogenica! Cioè sono un mostro? E’ questo quello che pensi di me?
VOCE: (sempre dall’orchestra la voce del regista russo Fjodor Ozep, quello de “La principessa Tarakànova”) Ana mia, tu con quela facia non puotrai mai fare l’atrice di cinèma…
A: Eccolo là, ce mancava pure er regista russo…
VOCE OZEP: Non vedi tu che naso hai tu? E la lucie? Tu la prendi male… E hai gli uocchi sempre pieni de ombra come due grotte… Sei tuta storta, Ana mia, sei asimetrica…
A: (si siede) Io sono sicura di non essere nata attrice. Ho decido di diventarlo nella culla, tra una lacrima di troppo e una carezza di meno. Per tutta la vita non ho fatto altro che urlare contro quella lacrima ed implorare quella carezza. E così mi sono condannata da sola a questa sofferenza. (sorride. Si autocompiange, ma con ironia) contadina, dovevo nasce. ‘Na bella contadina dell’agro romano che matte ar mondo ‘na bella nidiata de pupi e che ha un marito che, se parla, le riempie la faccia di schiaffi. E mò che so’? N’infelice, per sempre!
VOCE DI V. DE SICA: Sono stato alle Arti, a vedere la Magnani in “Anna Christie” di O’ Neill. Mi sono sentito quegli occhi addosso per tutta la notte. Il giorno dopo l’ho chiamata per offrirle il ruolo della canzonettista di varietà nel mio film.“Teresa Venerdì” è stato il primo film di Anna Magnani.
A: (fa la Loletta Prima, la canzonettista di “Teresa Venerdì”: si passa intorno al collo una stola di volpe e si mette un buffo cappello di volpe arrotolato a ciambella con una colomba al centro. Canta):
Qui nel cuor, qui nel cuor
C’è il mio amor, c’è il mio amor
Qui sul sen, qui sul sen
C’è il mio ben, c’è il mio ben…

IV Giorno
Anna Christie
A: Probabilmente, con Goffredo Alessandrini Anna Magnani pensò di avere trovato l’amore, un marito e il cinema. Invece… l’amore durò poco, il marito ancora meno e il cinema… non era venuto il momento, bisognava aspettare… (si interrompe, guarda il pianista) No, non mi interrompere, n’è venuta spontaneamente. Lo so che nel testo non è così, ma che c’entra? Io che so’? Un computer? Si premono i tasti e io “bip, bip, bip”?... D’altra parte deve dipingere la Magnani e il suo mito così… impudicamente… davanti a tutti. E ora io sto facendo un passo indietro per guardare quello che ho fatto, anche se non c’è scritto nel copione… (riprende, storicizzando). Goffredo Alessandrini era nato in Egitto, nel paese dove viveva la madre di Anna Magnani. Era colto, raffinato. Aveva studiato a Cambridge. Ed era regista cinematografico. Più tardi, molto più tardi, la Magnani dirà di lui: (riprende il personaggio dall’interno) Il fatto è che le dinne come me si attaccano solo agli uomini con una personalità superiore alla loro: io non ho mai trovato un uomo con una personalità capace di minimizzare la mia. Ho trovato sempre uomini – come dire? – carucci. Oddio, si piange anche per quelli carucci, intendiamoci, ma sono lacrime da mezza lira. Incredibile a dirsi, il solo uomo per il quale non ho pianto lacrime da mezza lira resta mio marito, Goffredo Alessandrini. Certo che non furono rose e fiori, con lui. Lo sposai che ero una ragazzina e finché fui sua moglie ebbi più corna di un canestro di lumache… (abbandona l’epicità brechtiana e vive le corna con stanislavskiana partecipazione) Il mio matrimonio è un calvario! Sono piena di corna e di disperazione! Tutta colpa di quelle piscialletto… di tutte quelle attrici, attricine, attricette, divette, divezze che ruotano intorno a Goffredo… che vengono perfino dall’estero per buttarsi addosso a lui, ‘ste zoccole! Se non era pe’ loro, io mò stavo ancora co’ Goffredo nella mia bella casa di via Amba Aradarm, magari a litigà come du’ matti ma poi a rifà quelle belle paci saporose che danno gusto alla vita…
(A.si side davanti a uno specchio, come se fosse nel camerino del teatro. Si trucca da “Anna Christie”: si passa un boa nero, spelacchiato, intorno al collo e si mette in testa un baschetto nero)
VOCE DI ALESSANDRINI: Per salvare il nostro matrimonio, non restava altro che sperare nella nascita di un figlio. Ma non ci furono figli e noi continuammo a litigare ed a rifar pace. Per venti volte lasciai Anna e per venti volte tornai da lei, attratto dalla sua profonda umanità. Anna era una moglie fedelissima: ma il senso della serenità le era profondamente sconosciuto…
(Dall’orchestra un’altra voce: quella di Anton Giulio Bragaglia).
VOCE DI BRAGAGLIA: Ho diretto Anna Magnani in “Anna Christie” e posso ben dire che la sua arte è incommensurabile. E’ la sola attrice che può fare quello che vuole.
A: (con una smorfia di sarcasmo) Bragaglia ci ha raggione. Quest’anno ci ho voja de fa’ la parte der Conte de Cavour.
(Si alza. Entra nel ruolo di Anna Christie. Si rivolge a due invisibili interlocutori).
A ANNA CHRISTIE: Prima stavate litigando su chi di voi doveva essere il mio padrone. Tu, papà. E tu, Mat Burke, mio futuro marito… Ma io non ho nessun padrone all’infuori di me stessa, capite? Io faccio quello che mi pare e nessun uomo, chiunque esso sia, mi darà mai degli ordini! Non chiedo di essere mantenuta da te, papà. Quante volte ti ho scritto che facevo una vitaccia… che mi toccava sgobbare come una schiava a casa di quei cugini dove avevi voluto mettermi? Ma tu niente, hai sempre voluto fare il sordo. Mai una volta ti fosse venuto in mente di venirmi a trovare. Tutte quelle stupidaggini che dicevi: volevi tenermi lontana dal mare perché tu, marinaio, odi e dici di odiare il mare… Io non ti ho mai creduto, perché la verità è un’altra: non ti importava niente di me, ecco tutto! Sei come tutti gli altri! (pausa. Riprende con tono sempre più sofferto) Ma… c’è una cosa che non ti scrissi mai. Fu uno di quei cugini che tu credi così brava gente… il ragazzo più giovane… Paul… fu lui a mettermi sulla cattiva strada. No, non fu colpa mia. Lo odiavo più del diavolo, e lui lo sapeva. Ma era grande e forte: come te, Mat. Fu per questo che fuggii dalla fattoria. Andai a Saint Paul, Minnesota. Feci la bambinaia. Mi sentivo in gabbia, proprio come dentro una prigione. Dovevo occuparmi dei bambini degli altri. Sentirli piangere e gridare giorno e notte. E fuori c’era la vita, c’erano i colori. Ero giovane, papà. Mi compiangevo: ero infelice. Così, alla fine cedetti alle pressioni di una che non conoscevo. Mi trovai quasi contro la mia volontà ad entrare in una casa. Sì, una di quelle case dove vanno i marinai come te, papà. E come te, Mat Burke, quando sono in porto. E non solo i marinai, ma anche gli altri: i cittadini. Quelli perbene. Tutti ci venivano! Tutti gli uomini! Li odio! Li odio! Dio li maledica!
(Esce, rabbiosa. Alto e straziante, un motivo di jazz: l’assolo d’una tromba)

V Giorno
Quando meno te l’aspetti, Totò e Massimo

Siamo alla Rivista di Michele Galdieri “Quando meno te l’aspetti”. Su una musichettaccia d’avanspettacolo, si sente la voce di A. incisa su un disco un po’ frusciante, a imitazione dei dischi d’epoca.

VOCE A: (canta)
Quando meno te l’aspetti
La sorte muta
Fa più dolce dei confetti
La tua cicuta
La strega arcigna
Che sogghigna
Si trasforma nella fata più benigna
E quando meno te la sogni
Ti sorride, provvedendo ai tuoi bisogni…
VOCE DI TOTO’: Come dice questa donna, a me mi dà alla pelle!
(Entra A. Ha un abito da sera lungo, di raso nero)
A: (canticchia)
Quando meno te l’aspetti
La sorte muta
Fa più dolce dei confetti
La tua cicuta…
(parla) Sono felice. Il mio nuovo amore è bello come un angelo. E’ un cherubino biondo e io me ne vado di testa per lui. (entra in scena l’attore B. si siede, spalle alla platea. E’ in penombra) Piace un po’ troppo alle donne, questo è vero. Le ragazze si sturbano, quando lo vedono in carne e ossa: Massimo Serato, il divo del cinema… (pausa) Io sono in compagnia con Totò. La rivista è l’università dell’attore, quando esci di lì sei davvero laureato…
VOCE DI TOTO’: Vedrai, Anna, che il pubblico alla fine ci vorrà bene, perché gli faremo patire un sacco di piacere…
(Va in luce l’attore B. A.Si sdraia sul divano).
B: Anna era sicura di essere sterile. Con Alessandrini avevano tanto desiderato un figlio. Con me Anna è rimasta incinta dopo quasi due anni di convivenza. All’inizio avevamo fatto patti chiari: stare insieme finché lo avremmo voluto, ma in piena libertà. Poi… Anna è diventata esclusiva e ha incominciato a pretendere da me quello che non mi sentivo di darle…
A: Basta! Basta! E statte zitto! ‘Nvedi quanto parla…
(B. va in penombra. Si volta)
A: Uffa, è mezz’ora che sto stesa sul divano. La gente viè a teatro pe’ vedemme, quanno ce viè… sennò, se ne sta a casa davanti a quel coso lì… er televisore! L’informazione? E chi se ne frega dell’informazione! Se ha voglia di informazioni, il pubblico se compra ‘n bel libro sulla Magnani e se lo legge. Io non do nessuna informazione. Non siamo mica alla stazione!
(B. esce. A. comincia a dettare con Totò: il brano è “Il gagà e la cagarella”. Il duetto è evidenziato dal campo e controcampo vocale)
VOCE TOTO’: Oh, Marfa!
A: Oh, Foffo!
VOCE TOTO’: Strano, eh? Quando meno te l’aspetti… ritrovi Marfa!
A: Quando meno te l’aspetti… ritrovi Foffo! E’ un anno che non ci vediamo. E tu che cosa hai fatto dal 1941 al 1942?
VOCE DI TOTO’: Oh, quante cose… L’anno scorso fumavo cicche di “Macedonia”…
A: E adesso?
VOCE TOTO’: Adesso fumo cicche di “Popolario”…
A: Rammenti, Foffo? L’altr’anno parlavo sincopato. Dicevo “tele” invece di “telefono”; “occu” invece di “occupato”; “bici” invece di “bicicletta”. Parlavo a metà, no?
VOCE DI TOTO’: Già, parlavi a metano. Ma ora non c’è più neanche quello…
A: Che ci vuoi fare, siamo in guerra… Lo scorso anno, ricordi? Ci fu del tenero fra noi. Tu mi portasti in quella “garconnière”… pardon, anzi scusa, in italiano ora si dice… “giovanottiera”. Basta con queste orribile parole straniere. Io ti chiesi di offrirmi un… “cocktail” e tu mi dicesti: “L’Accademia ha sostituito alla parola cocktail la parola arlecchino. Non c’entra niente però è carina”. Tu mi versasti il cocktail, pardon, anzi scusa, l’arlecchino nello shaker… pardon, anzi scusa, nello battitoio… no, il fatto di sbattere venne dopo… Insomma, mi chiedesti: “Allora quale arlecchino preferite? Volete Olezzo di legumi?” Io risi e ti dissi: “Sì, e dove li trovate i legumi?” E tu, allora: “Volete un Tre Moschettieri?” E io: “No, preferisco Vent’anni prima!” E tu: “Magari, Marfa!” E io: “Magari, Foffo, magari…” Poi insieme dettammo (canta sull’aria di “Signorinella”, facendo le due voci)
Signorinella pallida
Vi prego, giovanotto, son signora
E’ meglio, troverò la strada libera per starvi accanto almeno un quarto d’ora…
E sia… ma un nido tiepido, vogliate offrire a questa capinera…
Ho qui la stanza con l’ingresso libero: la “garconnière” ovvero “giovanottiera”…
Oh che schifezza
Nel civettuolo nido dell’ebbrezza, voi sognerete tanto accanto a me…
Vorrei sognare… ma ogni tanto scrocchiano le molle del sommier…
Convegno riuscitissimo
Offrirmi da bere qualche cosa…
Con gran piacere, qui c’è il bar portatile: gradisci un bicchierin d’acqua acetosa?
Avrei gradito un gocciolo di whisky o di liquori prelibati
Ho un liquorino raro e costosissimo: ti giuro ch’è un autentico Frascati!
Porca miseria!
Gradite qualche cosa o Ninfa Egeria? Gustate almeno due marron glacés!
A me le caldarroste non mi piacciono, mangiale tutte te!
Quale avventura splendida
Sognavo una gran casa profumata
Lo so… ma sognavate il tram elettrico
Vattene, Don Giovanni Novecento. Più passan gli anni e più diventa racchio il Don Giovanni, che generoso e gran signore fu…
Mò questi qua… t’abboffano di chiacchiere… non c’esce niente più… Ma tu, dove sei tu?
(Esce, mentre continua la musica di “Signorinella”. Poi sfuma la musica ed entra, repentino e perentorio, un “ueeè”, “ueè”).

VI Giorno
Primipara attempata

A. è dietro una quinta. Si sta cambiando l’abito da sera, ma non per questo smette di parlare.

VOCE DI A: Primipara attempata! Ma perché, secondo loro, una che ha appena 34 anni sarebbe attempata? E se una di 45 anni fa un figlio, che sarà? Un’ovipara decrepita?
(Ricompare nel suo vestitino nero).
A: Luca, si chiama. Luca Alessandrini, anche se è il figlio di Massimo Serato. E allora? Se doveva chiamà enne enne? Fijo de madre ignota, che poi sarebbe fijo de ‘na mignatta? Manco pe’ gnente! Goffredo è mi’ marito. Ma – dice – tu stai co’ Massimo Serato… Ma – dice – Goffredo sta co’ Reggina Bianchi e ci ha pure du’ fije co’ lei… e a me che me frega? Secondo la legge, pe’ portà ‘r nome de Massimo Serato bisognava dichiarare all’anagrefe “figlio di Massimo Serato e di donna che non vuole comparire”. E chi sarebbe, ‘sta donna che nun vòle comparì? Sarei io? Che? Io nun vojo comparì? Sarei io? Che? Io nun vojo comparì? Ma li mortaci sua, io compajo, cazzo, si compajo! Me fa ride, ‘sta legge… (scampare in quinta. Ricompare in bicicletta. Canta, in bicicletta, “La bella Angelica”)
La bella Angelica
Che amavi tu
Ti sembra un’elica
Nel cielo blu
Mutò cavallo
Cambiò la sella
Qualche rotella
Non gira più
Or son dinamica
Di gioventù
Son… panoramica
Per soprappiù!
E in bicicletta
Mostro, distratta
Come son fatta
Di sottinsù!
Ho un che da sgherro
Da gladiator
Ho un far bizzarro
Minchionator
Ho un paracarro
Dov’era il cuor
Ed il catarro
Dei fumator
La bella Angelica
Canta “du du”
La fisarmonica
Non lascia più!
(scompare pedalando. Ricompare senza bicicletta. Va al tavolo. Si siede. Telefona) Giffè… so’ io. Che fai, dormi?... Embè? Che vor dì? C’è ggente che a le tre de notte nun dorme: io, per esempio… Ah, tu sì, invece? Tu t’arzi presto la matina? E da quando in qua Giggetto Pietravalle s’arza presto la matina?... Lassamo perde, ché nun ci ho er core de scherzà… Come, che voglio! Massimo, no? Ma nun lo sai che m’ha saputo fa, quer puzzone? Ah, ma io stavolta lo pianto! Ma no, che dico? Sarebbe troppo comodo: è quello che vuole! Io… l’ammazzo!... Come sarebbe “tutto qua quello che te volevo dì”? Te pare poco…?! Va be’, Giggè. Non perdiamo altro tempo. Basta con i giochi: passame Massimo. Io lo so che quer fijo de ‘na gran mignatta sta lì… Nun insiste, Giggè. Sta lì. State a fa’ l’orgia o l’avete già finita? Giggè, Anna sa tutto! Anche quando tace… Come dici? Non tace mai? E con questo? So’ sincera! Si deve dì ‘na cosa, nun la mando a dì, la dico!... Giggè: nun negà. Sta lì. Io… devo sapè. Io so’ come li cornuti, che vonno sapè tutto. Dammelo. Io… te capisco, sai? Te conviene staje appresso, ar ganimede. Come, perché? Co’ tutte le troje che je girano intorno… mica se le po’ godè tutte da solo… qualcuna pe’ te… e pe’ l’amico suo, quello stronzo d’Alberto Sordi, possino ‘mmazzallo, ci avanza… No? Dici di no? Nun te piacciono l’avanzi? E che voresti, la prima scelta? Co’ quella faccia? Nun me fa ride Giggè. Aho, mica sei Massimo, tu. Lui è bello come ‘n angelo. E’ un boja ma è ‘n angelo, e ‘n angelo boja. Passamelo. Scucilo. Sta lì. Je sento er fiato: puzza de whisky. Starà co’ qualche smandrappata e nun ci ha er coraggio de venì ar telefono… Senti, Giggè: si nun me lo dai, nun te fa’ più vede da me! Perché? Me lo domandi? Perché sei un ruffiano! Vaffanculo, brutto ruffianaccio! (riattacca, singhiozzando, ma si riprende subito. Si passa al collo un fazzoletto rosso, infila il braccio in un cestino di fiori ed è “la fiorita del Pincio”. Canta, sull’aria di “Quant’è bello far l’amore quand’è sera”):
Quante macchine salivano la sera
Quanta gente tutt’intono a ‘sta ringhiera
Quanta festa de maschiette e de gagà
Nun scendevano le coppie innamorate
Se ne stavano abbracciate a pomicià
Er barista je portava la guantiera
Co’ la bria e cor caffè che allora c’era
Ogni Topolino me pareva ‘n separé
Ogni gazzettino rimediavo lire tre
Ce scajavo sempre specialmente coi tassì
E le macchine CD
I più ricchi e gran signori
Me volevano un gran bene pure a me
La terrazza era ‘n salotto ed ogni sera
Me pareva ‘na stellata primavera
Mò il fior fiore de la mejo società
Resta in casa e gioca a carte: a baccarà
E quell’uomo che puntava er cannocchiale
Poveraccio, puro lui mò sai che fa?
Non potendo arimedià cor firmamento
Resta a casa e s’accarezza lo strumento…
Ma che luna, ma che luna c’è stasera
Vede er monno chi s’affaccia a ‘sta ringhiera
Da San Pietro e ll’antre cupole, laggiù
Fino al mare e più lontano, sempre più
Che m’importa se quassù nun c’è gnissuno
Che m’importa si nun trovo da scaja?
Mò ‘sti fiori li regalo a Roma bella
Che li porti a un soldato in sentinella!
(A. esce).

VII Giorno
Mila di Codra

Musica di zampogne. A. rientra. Ha sul capo un fazzolettone rosso da contadina abruzzese. O, ancor meglio, uno scialle ampio come nel quadro di F.P. Michetti. A-Mila si rivolge al pubblico

A-MILA: Gente di Dio! Salvatemi voi!
La porta! Chiudete la portiera!
Mettete le spranghe! Sono molti!
Han tutti le mani che pendono inerti
Han tutti le mani che sembrano morte
Ma sfiorano e sfregano… tutti… son pazzi
Son pazzi di sole e d’arzente.
Ah grazie per Santo Giovanni
È andata l’atroce corriera
Dell’ATAC di Roma col carco
Di maschi imbestiati di nafta…
Son figlia di Jorio: son figlia
Del mago di Codra, alle Farne:
sfollata dai monti d’Abruzzo!
E son venuta col pastore Aligi
L’Aligi mio ch’è tanto, tanto ignaro
Costì dove si vien da tutte strade…
Oh sono stanca e dolgono le gambe:
anch’io vorrei, anch’io, siccome Aligi
poter dormire settecento anni!
Oh lunga siesta, oh lunga pennichella!
Dov’è il silenzio delle mie montagne
Gioghi innevati e voi, nuvole erranti?
L’hanno spezzato il mio silenzio verde
Spezzato? Direi meglio spezzonato
Bombardato, squassato, bruciacchiato…
Non più il silenzio delle mie montagne
Non più le cantilene dei pastori
Non i lamenti delle cornamuse
Non i campani delle pecorelle:
solo gli spari della contraerea…
E la mia grotta con l’angelo muto
Che l’Aligi mio ch’è tanto ignaro
Scolpì nel legno, ora non c’è più.
E pure s’è spenta la lampada ad lio
Non c’è più goccia nell’otre spremuto
Sparito è l’olio e pure la benzina
E l’accendino non s’accende più.
La fiamma è bella! Sì, ma dov’è ita?
L’oliveto dov’è, verde e d’argento?
Mila di Codra son, figlia di Jorio:
bagascia di fratta e di bosco
ma creatura d’eterna poesia…
distrutta anche quella: poesia della vita!
E adesso Mila col povero Aligi
Quell’Aligi ch’è ancora tanto ignaro
Abita laggiù, verso Porta Portese
In una fredda stanza ammobiliata:
un buco! Quattromila lire al mese!
Con una padrona di casa che strilla
Per l’acqua, la pasta, il carbone…
Matura, severa, deserta di maschio…
Oh povera Mila di Codra e di Jorio
Di Joro e di Codro, di iodio e di oro
Di oro no di certo, l’oro non c’è
Ché tutto alla patria fu dato!
Non resta che Mila di odio e d’amore
Col povero Aligi, pastore assonnato
Che tanto ha dormito e ch’è tanto ignaro
Finiti a pensione, senz’olio per l’Agnolo
E un po’ di pane, sì, ma tesserato!
Ma sia fatta del Re la volontà!
E’ alfin la cosa più importante
La libertà…
A: (si stacca dal personaggio. Storicizza) Una sera, durante l’ultimo periodo dell’occupazione tedesca di Roma, il teatro si riempie di elegantissimi repubblichini, vestiti di nero che parevano bacarozzi. Alla fine dello spettacolo, ‘n paio de loro vengono nel mio camerino e me fanno “Signora, stasera avete gridato libertà. Non dovete dirla più, quella parola, se no, domani sera torniamo qui al Teatro Valle e ci buttiamo una bomba. Intesi?” E se ne vanno. Tutta la compagnia, compreso Totò, è morta di paura. Solo io rido: “Ve cacate sotto eh?” La sera dopo il teatro è ancora più nero. Entro in scena e quando s’ariva ar dunque, me piazzo al centro der parcoscenico, le mani sui fianchi e:
“Ma sia fatta del Re la volontà!
È alfin la cosa più importante…”
Me fermo, guardo i colleghi, je dico sottovoce: “Ve cacate sotto, eh?” poi grido ar pubblico: “Aria! Aria pura per respirare!”
(Esce. Musica: in sottofondo il motivo di stornelli romani)

VIII Giorno
Con un palmo di naso

Cresce la musica degli stornelli. Rientra A. Ha sul vestito sette veli di tulle colorato. Canta accompagnandosi alla chiatarra.

A: Fior d’armistizio
Si nun potessi dì quello che penso
Sarebbe stato vano er sacrificio!
Fior de gaggia
Er fascio s’è sfasciato, ciao Benito
Vedremo che vor dì democrazia!
Fior de limoni
So’ tutti uniti e bboni li partiti?
Amico, se vedemo a l’elezioni!
Fior d’ametista
Er mejo capo ormai io l’ho capito
È quello che più fa l’antifascista!
Fiore di luce
C’è uno tanto forte: se deduce
Che ‘n giorno o l’antro avremo ‘n antro duce!
(Cambia musica, mentre accenna alcuni passi della danza dei sette veli. Scende in platea ballando. Si ferma).
A: (al pianista) Che dici, scendo? Lo so che è roba da cabarettaccio… Ma la Magnani scendeva… e io scendo. E’ storico! (in platea accarezza un uomo calvo) Viviamo in tempi tragici, è un secolo inguauato, le chiome si raddrizzano sul capo per la stizza, ma a lei che è un pelatissimo che cosa le si rizza? (ride come sa ridere lei. Poi si rivolge ad un altro uomo, toccandogli il naso) Guarda che bel nasone! Se tanto mi dà tanto…
(Risale in palcoscenico. Duetta con la voce di Totò che viene dall’orchestra).
VOCE TOTO’: Balla, Salomè! Se ballerai per me avrai tutto ciò che vorrai del mio regno! Balla, balla, Salomè!
A: Ebbene, sì, ballerò! Obbediente, incosciente, io m’inchino al suo folle voler! Docilmente, ciecamente, faccio tutto per il suo piacer!
VOCE TOTO’: (cantato) E levati i sette veli.
A: (cantato) I sette veli gnornò gnornò.
VOCE TOTO’: E levati i vezzi d’oro
A: I vezzi d’oro gnornò gnornò
VOCE TOTO’: E’ un gesto assai patriottico vedrai che mi servirà
A: Ne ingemmerai l’adultera vedette del cinema.
VOCE TOTO’: E levati pur la pelle
A: No, la pelle gnornò, gnornò.
VOCE TOTO’: Ne fo un cuscino morbido per star seduto qua
A: Mò m’hai scocciato, caspita nient’altro ti voglio dar! (parlato) Non ti do più niente. Anzi, no, ti do un consiglio: un Gran Consiglio… Vattene! La festa è finita!
VOCE TOTO’: Me ne vado al nord. Però, nonostante tutto, io t’ho voluto bene veramente.
A: (canta) Se mi volevi bene veramente
Dovevi agire un po’ più seriamente
Dovevi fare meno profezie
Dovevi dire meno fesserie
Dovevi smascherare quei pagliacci
Pensare più ai fagioli che ai Setacci
Si nu’nfa, si nu’nfa, si nu’nfa, si nu’nfamo
Te n’abu, te n’abu, te n’abu, te n’abusi
Te n’abusi che in vile servaggio
Non ebbi il coraggio nemmen’e parlà!
Quando pontificavi dal balcone
Perché io non ti feci un pernacchione?
Quando facevi tutto a tuo piacere
Ché non ti detti un calcio nel sedere?
Perché non feci mai neppur la mossa
D’organizzar’no straccio di sommossa?
Si nu’nfa, si nu’nfa, si nu’nfa, si nu’nfamo
Te n’abu, te n’abu, te n’abu, te n’abusi
Ma ora ch’è finito il rio servaggio
Mi torna il coraggio e mi metto a parlà!
(va verso il fondo, cantando. Parlato) Basta, sono stanca. Facciamo una pausa, andiamo a prendere un caffè. Venite?
(Escono tutti quelli dell’orchestra, con A. romane solo B. che era rimasto seduto in poltrona, di spalle. B. si volta, rimanendo seduto)
B: Anna era molto gelosa: perfino dei miei pensieri. Bastava che una bella donna mi passasse davanti e lei pretendeva di aver capito cosa avevo in testa… Litigavamo spesso. La gente veniva a casa nostra con la speranza di vederci dare spettacolo, con le norme ormai famose scenate…
(Entra A.)
A: E tu che fai? Te sei offeso? Nun vieni?
(Buio).

Fine del primo tempo

SECONDO TEMPO

La scena è la stessa del primo tempo

IX Giorno
Rossellini

B. sta seduto, spalle alla platea, su una poltroncina da regista. A. entra come una furia, va verso il divano e comincia ad inveire guardando sotto il divano.

A: Esci! Esci fuori, che te devo menà! Brutta bestiaccia infame! Vie’ fori, stronzo, che te gonfio. Guarda che io non ci sto, a farti la guardia tutta la notte! Te conviene venì fori, se no pijo ‘na scopa, hai capito? Vie’ fori, carognaccia! (al pubblico) No, non è Micia, il mio cane lupo. E’ lui, il mio nuovo grande amore. Roberto Rossellini. (si avvicina a B. che resta seduto di spalle) Io manco lo conoscevo, ‘sto Rossellini. M’hanno detto che è un regista di serie B, ma non mi frega niente. La storia mi piace. Da anni non faccio che ripetere: ma è possibile che non si possa fare un film su una donna qualunque, che non sia bella, che non sia giovane, che non sia diva, che non sia falsa? Ed ecco che mi danno il copione di “Roma città aperta”… (pausa) L’altro giorno arriva sul set a trovarmi Massimo. Gli dico di aspettarmi, devo parlargli. Mi è stato riferito che se ne vuole andare al Nord. Le cose fra noi non vanno più bene, però ‘no straccio de spiegazione me la deve dà!... Finisco la scena e vede che lui, stanco di aspettate, sta approfittando della camionetta della produzione pe’ squajarse alla chetichella. Me viene er sangue all’occhi. Come ‘n’vasata corro appresso alla camionetta urlando: (mima la scena. Corre urlando) Massimo! Fermate! ‘Ndo vai? Aspetta! Frocio… magnaccia… aspetta, te possino cecà! (cade a terra. Seduta, si rivolge al pubblico, estraniata) E’ così che è nata la scena più famosa di “Roma città aperta” e forse del cinema italiano… Sergio Amidei, lo sceneggiatore, aveva assistito alla chiassata della Magnani e suggerì a Rossellini di adattarla al film… (si rialza. Storicizza, ma dal di dentro) Con Rossellini non si provavano le scene. Si girava. Lui preparava l’ambiente, poi mi buttava dentro, sapendo che io avrei funzionato. Fu così per la scena della mia morte. Roberto aveva preparato tutto in maniera allucinante. Io mi sentivo riportata al tempo che i tedeschi se portavano via i giovani pe’ Roma. Perché quello che stava con me, addossato ai muri, era popolo-popolo. E i tedeschi erano tedeschi-tedeschi, presi da un campo di concentramento. Le donne erano pallide nel risentire i nazisti che parlavano tra loro. Io ero realmente angosciata. Ho provato un’emozione terribile e l’ho potuta rendere sullo schermo. (la rivive) corro dietro il camion gridando “Francesco! Francesco!” Sento il crepitare del mitra… me pare d’esse colpita per da vero… crollo a terra… quando mi rialzano, piango come ‘na disperata… (riprende a “raccontare”) Con Roberto è tutto. Con lui c’è l’estate, c’è l’inverno, la tenerezza, la sfuriata, la gelosia. Ci sono i baci e gli schiaffi… il perdono e l’estasi… (ride) Quante volte abbiamo litigato perché avevamo scordato che s’era fatta la pace… Che matto, è Roberto… Un giorno me lo vedo piombà a casa, a Roma. L’abbraccio, felice. Che ce fai qua? Non stai a girà a Berlino?
VOCE DI ROSSELLINI: Sì, ma non ne potevo più di stare senza vederti. Ho mollato la troupe e ho convinto il pilota americano a farmi portare a Roma in aereo, in cambio di qualche bottiglia di whisky… A proposito, tesoro, dammi un po’ di soldi, c’è sotto il tassì che aspetta…
A: Eccoti mille lire… Perché fai quella faccia, non bastano?
VOCE DI ROSSELLINI: Il fatto è che… il pilota s’è sbronzato. Invece di atterrare a Roma s’è sbagliato e ha atterrato a Napoli. Così ho preso un tassì. So’ centomila lire…
A: (ride. Riprende a “raccontare”) Dopo il successo del film me vojono tutti. Pare che so’ pure diventata fotogenica. Oddio, mica tanto. La mattina, poi, manco pe’e gnente. Perciò ho fatto mette ner contratto che non comincio a lavorà prima delle undici. Camerini protesta ma io jò detto: “A Ma’, tu sarai matto! Vòi l’arte a le nove de mattina?” L’arte alle nove di mattina, che pretesa! Io ho una faccia delicata. Ho i calamai sotto gli occhi… la mattina presto sono neri, pesti. Bisogna fargli prendere la luce giusta. Glielo dico sempre a Aldo Tonti, l’operatore. L’altro giorno lui s’è stufato e m’ha risposto: “A Nannarè, ma che te posso fa’ io? Va’ da ‘n chirurgo, fatte fa’ quarcosa! Oppure vattene a Lurdese! Io nun te posso fa’ gnente!” Mah. Forse ha ragione lui. Non sono bella, anzi, mi sento brutta. Ma che è, ‘n seno, questo? Du’ caciocavalli. E la panza? Sempre gonfia, sempre gonfia: e guarda qua, su ‘ste du’ gambette da rachitica: pare ‘na patata infilata su du’ stecchini! Qualche giorno fa stavo girando un film, per una strada di Roma. Passa ‘na donna, se ferma, guarda. Quando le so’ vicina, sbotta: “Ammazzate quanto sei brutta!”… Sì, lo so, sarà stata ‘na burina. Ma m’ha fatto specie lo stesso. (prende la chitarra, canta “Canta se la vuoi cantar”):
Quanto sei bella Roma
Quanto sei bella Roma a prima sera
Er Tevere te serve
Er Tevere te serve da cintura
San Pietro e er Campidojo de lettiera
Quanto sei bella Roma
Quanto sei bella Roma a prima sera
Gira si la vòi girà
Canta si la vòi cantà…
De qua e de là der fiume
De qua e de là der fiume c’è ‘na stella
E tu nun pòi guardalla
E tu nun pòi guardalla quanto brilla
E questa è Roma mia, Roma mia bella
De qua e de là der fiume
De qua e de là der fiume c’è ‘na stella
Gira si la vòi girà
Canta si la vòi cantà…
(Esce).

X Giorno
Ingrid

A. entra. E’ tesa, nervosa- Si aggira per la stanza. Dopo un po’ si decide. Va a telefonare.

A: (al telefono) Suso? So’ Anna. Ciao… Dimme tutto quello che sai… Come, di che? Di lui, no? Di Roberto e di quella lungagnona… svedese, americana, che ne so? Quella! Ingrid Bergman!... Dimme la verità, Suso mia. Nun te preoccupà. Il grande amore non esiste. Non ci ho mai creduto, so’ tutte fandonie de buciardi. Ce so’ soltanto dei piccoli amori che durano un periodo di tempo più o meno breve. E così è con Roberto. Perciò, parla pure tranquillamente… I giornali? Embè? Lo sai che so’ appena tornata da Londra. Nun l’ho letti, i giornali. Che scrivono? Dimme che scrivono!... Ah. Ho capito. E’ andato a prenderla all’aeroporto di Ciampino. Come c’è andato: con la macchina della produzione o con la sua spider, la Cisitalia?... Ah, ho capito. Con la Cisitalia. E al ritorno ha fatto l’Appia Nuova o l’Appia Antica?... Ma come, che me frega. Lo so io, che me frega! E’ importante. Lo so che l’hai letto solo sui giornali, me l’hai già detto. Tu non sei responsabile de quello che scrivono i giornali, no? Rispondimi! Appia Nuova o Appia Antica?... Ah. Appia Antica. Ho capito tutto. Vuol dire che s’è proprio innamorato. (riattacca il telefono. Si stende sul divano. Musica: la colonna sonora di Renzo Rossellini dal film “Amore” di Roberto Rossellini. Dopo un breve brano A. si alza. Si sfoga, rabbiosa) M’ha mollata così, davanti a tutti! M’ha messa da parte come ‘na scarpa vecchia! M’ha resa ridicola agli occhi del mondo! Ha negato, ha negato fino all’ultimo, ‘sto vigliacco! Non ha mai avuto il coraggio di dirmi: non ti amo più, è finita… No! Dai giornali, sono venuta a saperlo! (ha una smorfia di sarcasmo. E’ il suo modo di superare gli avvenimenti spiacevoli) Me dispiace pe’ lei, pe’ la svedese. E’ ‘na brava attrice, ma viene da ‘n’altra scuola… Porella… (sorride) M’hanno detto ch’è quasi svenuta, quando ha visto che Roberto, durante il film che girava con lei, si appuntava i dialoghi sulle scatole dei fiammiferi! (di nuovo s’indigna) Ma almeno la stampa me lasciasse tranquilla! Niente! Vonno sapè, vonno sapè, ‘sti sciacalli! E ce so’ pure i giornali che me prendono per culo, come ‘sto fijo de carta igienica qua… “Film d’oggi”… Porcherie! (legge) “Goffredo mi abbandonò perché diceva che non avevo talento: che frignone! Così conobbi Massimo e pensai che la nostra unione fosse decisa in cielo: somigliava tanto ad un angelo! Ma qualcuno mi disse che mi tradiva: quel puzzone! Poi un giorno incontrai lui, da Doney. S’avvicinò e mi disse: “A capellò, vie’ ‘n po’ qua!”. “Se vedemmo” mi disse lasciandomi, allorché partì per l’America. Non tornò più, si capisce. Quando lo rividi ancora, da Doney, stava facendo l’amore con un corazziere svedese”. (sputa sul giornale) Puh!
(Butta il giornale ed esce come una furia. B. si alza dalla poltroncina ed esce)

XI Giorno
Bellissima

A. torna in scena. Si rivolge al pianista. Gli fa delle domande, ma in realtà le domande le fa a se stessa: non aspetta risposte, infatti

A: Senti… Mi senti? Non ti sembra un po’ troppo narrativo, fino a qui? Si può tagliare ancora, non ti pare? Ogni tanto mi pare di dirla un pochettino a pappagallo, non ti sembra? Non ti sembra. Secondo te va bene così. Figurati, se piace a te mi fai felice, però, scusami, sai, ma qui… bisogna ‘nventasse quarcosa. Che ne dici? Non dici niente, eh? Vabbè, vado avanti… Dove eravamo? (prende un copione. Legge) Ah, ecco qui. “Undicesimo giorno. Bellissima”. (posa il copione) Nonostante i suoi difetti – e ne ha tanti, ma tanti! – mi sono trovata bene con Visconti. In “Bellissima” mi ha lasciato le redini sciolte… Ha capito che è l’unico modo per farmi recitare bene. Perché io non so costruire una parte, in cinema. Non so stabilire un personaggio. Voglio dire che, se il personaggio è autentico e mi commuove, se lo sento vicino a me stessa, allora sono capace di interpretarlo nel modo migliore. Io… sarò presuntuosa, ma non credo di recitare. Io non recito, anzi, recito male se provo a recitare. Io vivo quello che faccio, o credo di viverlo, che è lo stesso. Quando nel film dico:
(Entra nel ruolo di Maddalena Cecconi, in “Bellissima”).
ANNA/MADDALENA: In fondo che è recità? Se io mò me credessi d’esse ‘n’altra… (spalanca le braccia) Se facessi finta d’esse ‘n’altra… Ecco che recito…
A: Non è più Anna Magnani che parla ma è proprio lei, il personaggio, Maddalena Cicconi…
(Rientra nel ruolo di Maddalena Cicconi. Si accosta ad uno specchio, prende una grande bambola, le si rivolge come se fosse sua figlia, la Maria del film)
ANNA/MADDALENA: A te nun te va, eh? A Nì, guarda, è come quando dici la poesia… quella della farfalla, che è tanto carina, come fa? “Io so’ ‘na farfalla, mezza bianca e mezza gialla…” quella che fa con le mani così… (solleva le braccia e le muove aritmicamente come ali) Capito, Nì? Però non zagaglià, fija mia, perché se non come famo? Lo devi fa’ senza zagaglio… Tu dà retta a mamma tua. Mi fanno ride tutte le mamme qui nel cortile… “La fija mia, la fija mia, la fija mia…” Nun ci hanno la stoffa… tu invece… non sei fija mia, tu? Tu sì che pòi fa’ l’attrice, Nì. Tu la puoi fa’ l’attrice, sa’? Io pure, avessi voluto… (sospira) Vie’ qua che te pettino… Oh! Come ti sei combinata? Vedemo un po’ come stai con la riga in mezzo… (vedendo il risultato, fa una smorfia) Hum, oddio quanto sei brutta… No, no, niente! Tutti indietro come mamma tua… così… (le ha pettinato i capelli all’indietro. Osserva il risultato) Fatte vedè, fatte vedè un po’! Patata bella! Sì… sei carina, così… Sei bella. Sei più semplice, sei più vera… Oggi famo ‘na fotografia, poi la portamo al signor Regista, quann’è pronta… Capito? E poi te fanno recità, ar provino… Capito, Nì? Però nun fischià, quanno parli… Capito? Te ricordi come t’ha detto quell’attrice che t’insegna a recità? Bisogna studià… Bisogna studià… Avesse ragione lei, quella matta! (ride. Ripete) “Bisogna studià… bisogna studià…” Oddio… e che è ‘sto fischio? Che faccio, fischio puro io, mò? Boh. Nun lo so, forse ‘sto fischio è ‘n vizio de famija… (nervosa, prende la bambola) Ah Nì, sei pronta? E ‘nnamo!
(Esce con la bambola.
Rientra come A. Si allontana dal personaggio, lo dice)
A: “Bellissima” fu presentato in America. La Magnani fece il suo primo viaggio a New York… (torna nel personaggio. Parla come rivolgendosi alla “reception” dell’Hotel) Excuse me… So’ sorry, ma nun lo parlo l’inglese… Siccome me dà fastidio a vedè la gente che s’agita senza che possa capirla… non si potrebbe, in camera mia, mettere un pianoforte al posto del televisore?
VOCE DI M. GALDIERI: Il mondo della rivista è fedele, cambia lentamente… Tu sei quella che sei: ti rimpiangono tutti. Torna. Torna al teatro. Vedrai: “Chi è di scena?” sarà un successone!
(A fa la parodia della figliastra dei “Sei personaggi”. Si rivolge al capocomico del dramma, in platea).
A - FIGLIASTRA: Creda che siamo veramente sei personaggi, signore, interessantissimi. Quantunque sperduti, nel senso che l’autore che ci creò, vivi, non volle poi o non poté materialmente metterci al mondo dell’arte. Per cui siamo e non siamo, o meglio, pariamo ciò che non siamo e al tempo stesso siamo più di quello che pariamo e tra l’essere e il parere conta più il parere d’essere che l’essere, anche se in fondo vorremmo più essere che parere… Insomma, è un vero peccato che io non sia, per esempio, perché se fossi sarei davvero un bel personaggio che sa cantare e recitare e danzare… Ma stia a sentire, signore… (canta la canzone contenuta nei “Sei personaggi”: è il foxtrot di Stamper-Salabert “Prends garde à Tchou-Thin-Tchou”)
Les chinois sont un peuple malin
De Shangai à Pékin
Ils ont mis des écriteaux partout :
Prends garde à Tchou-Thin-Tchou !
(parla) E allora, signor regista e capocomico, me lo faccia rappresentare subito, questo dramma, perché vedrà che a un certo punto io prenderò il volo ! Sissignore, prenderò il volo! Il volo! E non mi par l’ora, mi creda, non mi par l’ora! Perché dopo quello che è avvenuto di molto intimo tra mio padre e me… (orribile ammiccamento) non posso starci più, insieme ai sei personaggi. Ho voglia di lasciarla, questa squallida compagnia… e se rimarranno in cinque invece di sei, mi dispiace per Pirandello, ma io me ne vado! Me ne andrò, me ne andrò per quella strada… Sarò una donna sola nella strada… Sarò donna di strada! (ancheggiando, si muove verso l’uscita. Canticchia)
Les chinois sont un peuple malin
De Shangai à Pékin
Ils ont mis des écriteaux partout :
Prenez garde à Tchou-Thin-Tchou !
(Esce).

XII Giorno
L’Oscar

Musica : un motivo di Gershwin. A. rientra, con i capelli tirati su. Si siede al centro della scena, per l’intervista. Risponde ora all’una ora all’altra delle voci spioventi dall’alto.

VOCE 1: Signora Magnani, le torna in mente una frase che le ha detto il regista Daniel Mann, durante le riprese de “La rosa tatuata”?
A: Sì. Mi ha detto: “Ricordati che noi non vogliamo una Magnani fabbricata qui, a Hollywood. Vogliamo la Magnani”.
VOCE 2: Cosa pensa di Hollywood?
A: Orson Welles mi ha detto che è un camposanto dove i morti respirano.
VOCE 2: E lei è d’accordo?
A: Io non conosco Hollywood. Ci ho lavorato per cinque mesi e basta: per me è un luogo di lavoro come un altro.
VOCE 3: Secondo lei qual è la migliore scuola per diventare attori?
A: Il palcoscenico. Tutte le altre scuole per attori comprese, portano a nulla o danno scarsissimi risultati…
VOCE 4: Ha nostalgia dell’Italia?
A: Ho voglia di rivedere Roma. Dopo tanti grattacieli, ho proprio bisogno dei tetti bassi di Roma… e delle chiese sedute sui tetti.
VOCE 5: Quanto pesa il brillante che porta al dito?
A: E che ne so? Mica l’ho pesato!
VOCE 5: Quanti vestiti ha portato, venendo dall’Italia?
A: (a parte) … sin’ammazzalli, so’ peggio der confessore, vonno sapé proprio tutto… (all’intervistatore) Tre sottane e tre golf.
VOCE 6: Le piacciono le bionde?
A: (con sarcasmo) E come, no?
VOCE 6: E gli uomini americani?
A: Beautiful.
VOCE 7: Quando si siede dal parrucchiere cosa gli dice?
A: Niente.
VOCE 7: E se lui le chiede come pettinarla?
A: Gli dico: alla Magnani, stronzo!
VOCE 8: Cosa pensa di Tennessee Williams, l’autore de “La rosa tatuata”?
A: Tennessee è un bambino con una purezza da bambino e una bontà sovrumana. Un uomo intelligente prima di essere un intellettuale.
VOCE 8: Tennessee Williams ha scritto: “Magnani! Non posso fare a meno di far seguire il suo nome da un punto esclamativo”. Le piace?
A: Certo che mi piace. Tennessee è un amico.
VOCE 8: Perché siete amici?
A: Perché siamo due mostri.
VOCE 8: Di che parlate?
A: Dei fatti nostri.
VOCE 9: Il “New York Times” ha scritto che tutte le nostre dive in confronto ad Anna Magnani sono come manichini di cera in confronto ad un essere umano. Condivide questo giudizio?
A: No. Ci sono anche attrici americane in carne ed ossa. Bette Davis, per esempio.
VOCE 10: La “Saturday Review of Literature” scrive che solo Greta Garbo può reggere il paragone con la Magnani. Che cosa ne pensa?
A: Mi pare esagerato. Per Greta Garbo. (ride)
(L’intervista, punteggiata fai flashes dei fotografi, è finita. A. rimane un attimo soprappensiero, poi si alza e si rivolge a qualcuno).
A: Colette! Indro! Aspettatemi! Non mi va di restare sola qui in albergo… Fateme un po’ de compagnia, ve prego… Ve faccio portà ‘n po’ de champagne! No, lo champagne no, lo so che non ti piace, Indro… Aspettate, nun ve n’annate. Ve canto du’ canzoni:
(Prende la chitarra. Canta “Trastevere da quando t’ho lasciato”, poi interseca uno nell’altro i motivi di varie canzoni: “Chitarra romana”, “Dietro Castel Sant’Angelo”, “Stornellata romana”)
Suona suona mia chitarra
Lascia piangere il mio cuore
Senza casa e senza amore
Mi rimani solo tu!
Se la voce è un po’ velata
Accompagnami in sordina…
La mia bella Fornarina
Al balcone non c’è più…

Dietro il Castel Sant’Angelo
T’aspetterò stasera
Se tu verrai, bell’angelo,
d’amor ti parlerò.
T’aspetterò sull’angolo
Nell’ombra della sera
Dietro Castel Sant’Angelo
Non mi dirai di no.

Quanno ar mattino Roma s’è svejata
Pare un pavone quanno fa la rota
Sembra ‘na pennellata
Fatta d’arcobaleno
Pure si piove… pare ch’è sereno
Gira, gira e fai la rota
Nun te devi mai stancà
Gira, gira e fai la rota
E nun falla mai fermà!
(parla) Aspetta, Indro! E’ inutile che guardi l’orologio, lo so che non ti piace fare tardi… ma stasera nun me potete lascià sola. Non mi va di rimanere sola qui a New York. Ho paura. Ditelo tu, Colè, che nun è bello annassene quanno una… Aspettate. Mò ve faccio sentì du’ ballate francesi del Seicento… o giù di lì…
(Si scioglie i capelli. Spegne le luci e accende delle candele. Canta “Ballade de Barberie” e “Ballade de mai”)
Ballade de Barberie
Beau chevalier qui partez pour la guerre
Qu’allez-vous faire
Si loin d’ici ?
Voyez-vous pas que la nuit est profonde
Et que le monde
N’est que souci ?
Vous qui croyez qu’une amour délaissée
De la pensée
S’enguit ainsi
Hélas, hélas ! Chercheurs de renommée
Votre fumée
S’envole aussi
Beau chevalier qui partez pour la guerre
Qu’allez-vous faire
Si loin de nous ?
J’en vais pleurer, moi qui me laissais dire
Que mon sourire
Etait si douz.
(parlato) Aspettate ! Ancora un’altra… l’ultima ! « Ballade de mai ». (canta)
Volentieri en ce mois-ci
La terre mue et se renouvelle
Maints amours en font ainsi
Sujets à faire amour nouvelle
Par légèreté de cervelle,
Ou pour etre ailleurs plus contents.
Ma facon d’aimer n’est pas telle :
Mes amours durent en tout temps…
Volontiers en ce mois-ci
La terre mue et se renouvelle
Maints amours en font ainsi
Sujets à faire amour nouvelle
Per légèreté de cervelle…
(Si stende sul divano e si addormenta, con la chitarra in braccio come un figlio. Dalle quinte un soffio spende le candele. Un attimo di buio, durante il quale squilla il telefono. Luce. A. assonnata, alza il ricevitore).
A: Ma che ca… Oh yeas… I see… Sure! Thank you! Yes! Anna Magnani is happy! (riattacca. Telefona subito dopo) Pronto, Vieri? Sì, lo so che sono le sei… Mi ha telefonato uno dell’Associated Press. Dice che l’hanno dato a me!... Io nun ce credo. Controlla un po’ tu, per favore.
(Riattacca. Passeggia nervosamente in su e in giù. Musica: un motivo americano. Squilla il telefono. A. si precipita a rispondere).
A: Sìììì… Ma… allora è vero! Ho vinto l’Oscar! Ho vinto l’Oscar!
(Riattacca il telefono, ridendo e piangendo. Esce).

XIII Giorno
Mamma Roma

VOCE F.Q. DI P.P. PASOLINI: Quasi un emblema, ormai, l’urlo della magnani.
Sotto le ciocche disordinatamente assolute
Risuona nelle disperate panoramiche
E nelle occhiaie vuote e mute
Si addensa il senso della tragedia
E’ lì che si dissolve e si mutila
Il presente, e assorda il canto degli aèdi…
(Entra A. veste di nero come sempre: stavolta indossa un tailleur ed ha un foulard di tulle al collo. Regge in mano una borsetta, anch’essa nera, ed uno straccio nero. Getta a terra lo straccio).
A: (allo straccio nero a terra, come rivolgendosi a pisolini) A Pier Pà, me devi crede: si me viè voja de ruzzà, Mamma Roma te la fa ‘na scena grande, co’ quer tango cor fijo! (ride felice, poi prende la chitarra. Canta un adattamento degli stornelli del film):
Fior de gaggia
Quando canto io canto con allegria
Ma nun me piace più ‘sta compagnia
Fiore de sabbia
Nun scherzo, vojo fa’ la santa donna
Così qualcuno scoppia pe’ la rabbia
Fior de cocuzza
Io quanno canto rido e ciò la ruzza
E chi nun je sta bbene ce va ‘n puzza
Fiore de merda
Io me so’ liberata de ‘na corda
E chi va ar posto mio se smerda!
(Lascia la chitarra. Inizia la passeggiata, illuminata da un seguipersone).
A-MAMMA ROMA: Addio! Ve saluto per sempre, amiche mie! Battete voi, che io nun batto più! (ride, ride) Triste chi rimane! Io me ne vado! Nun batto più!
VOCE: Era ora!
A-MAMMA ROMA: (abbozza un sorriso, ma si blocca) Qui, devo ride?
VOCE: Sì, ridi, ridi…
A: E no, scusa! Io mica rido a comando. Il riso può venire in tanti modi. Posso ridere prima, posso ridere dopo… in anticipo… in ritardo… Ma se mi interrompi, non mi viene niente. Io sono molto fragile. Hai visto? M’hai interrotto e io ho un riso falso. Ho fatto ‘na risata cretina e me so’ bloccata subito… Sì, lo so: sarò ‘n’attrice consumata – consumata l’anima de limortacci loro – ma so’ delicata de nervi. Basta un niente per farmi perdere la concentrazione. Sii bono, Pierpà…
(Riprende la passeggiata)
A-MAMMA ROMA: Davanti a casa mia ce stava un vecchio, uno ricco, che proprio i milioni se lo magnavano. Tutto vestito a la Robespierre, baffi, bastone, me pareva er Re de Santa Calla… Lo sapete come l’aveva fatti, li milioni? Ar tempo der Fascio, no? Mussolini dice, je fa: “Famme ‘n quartiere per popolo”, che sarebbe poi Pietrarancio. Questo qua je fa la prima casa, bella, tutti muri maestri, coi cessi, ce se poteva cucinà, dentro i cessi, tanto l’aveva fatti bene… Mussolini viè, je fa: “Bravo, è così che le volevo”. ‘Sto fijo de ‘na mignatta, come se n’è andato er duce, ha fatto solo i cessi, le case nun l’ha fatte più! Mò, quer quartiere, è tutto ‘na distesa lunga lunga de cacatori! Lo chiamano Cessonia! (ride, ride) Quan’era brutto, quer vecchio! Riaveva avuto ‘na malattia in Africa che l’aveva lassato tutto bucato in faccia… Ciaveva l’asma, i reumatismi, er mal de core, la colite…
VOCE: Era cristiano, armeno?
A-MAMMA ROMA: Lui ciaveva 65 anni e io 14. Me so’ sposata da piccola italiana. (ride, ride)
VOCE: E nun t’hanno epurata?
A-MAMMA ROMA: Ammazzalo, quant’era vecchio! Sembrava che j’erano rimasti n’altri du’ giorni de vita, ciaveva la bava alla bocca, e io dicevo: “Ecco, mò more…” (ride, ride) Eh, mica ciaveva torto in fonno, mi’ madre, a fammelo sposà! Se! Quello cià i milioni, me diceva, è pieno de sordi, quello a settant’anni te more sotto le mani! Che, te puzza de fa’ la signora tutta la vita? Dopo, te ne scegli uno… (ride, ride). La volete sapè, ‘na cosa? Mi’ padre è morto, mi’ madre è morta, quello ancora campa. Per questo io me so’ messa a fa’ la vita!
VOCE: (canta) La vi-ta, cha-cha-cha…
A-MAMMA ROMA: (balla il “Cha cha cha della vita”, senza smettere di parlare) Addio! Me ne vado! Ormai me so’ guadagnata ‘sto mondo e quell’altro! Ve saluto per sempre! Ho finito de fa’ la vita! (si allontana cantando e ballando)
La vi-i-ta. Cha-cha-cha
La vi-i-ta cha-cha-cha
(Si ferma. Cessa la musica del Cha-cha-cha).
A: Pure con Pisolini ho fatto la bona. Il risultato è stato “Mamma Roma”, un film sbagliato. Quel suo modo di girare, a piccole scene, a spezzatini, quasi mai m’ha dato l’occasione per esprimermi bene… Comunque sia, su chi ricade la colpa di questi sbagli? Su di me. In Italia c’è questa strana abitudine: quando un film va male, ci va di mezzo l’attrice! In America, nessuno ha dato la colpa a Marlon Brando se il suo film, “Desiree”, era un obbrobrio. E si dimentica pure che io non sono un’attrice di mestiere e che riesco a combinare qualcosa solo quando sono libera di fare quello che voglio… E poi, basta. M’hanno rotto, con questi eterni ruoli di popolana isterica e rumorosa!
(Esce infastidita).

XIV Giorno
Meglio le bestie

Musica: in sottofondo, tenuissimo, il motivo di “Reginella”. A. rientra. Ha in mano una gabbia con un merlo indiano, vivo, naturalmente. Posa la gabbia sul tavolo. Monologa rivolgendosi alla granula.

A: E allora, non me lo dici “Ciao, amore”, come t’ho insegnato? Su, parla. Nun te fa’ pregà. Parla, Pinuccio bello, dimme quarcosa. Perché io con chi parlo, se non parlo con te? E dai, parla! Ammazzalo ch’impunito! Ma lo sai che te dico, Pinù: nun me meriti! Nun te la meriti Nannarella, brutto stronzo! (si allontana. Volta le spalle alla gabbia) Nun vòi proprio parlà, eh? Ma lo sai che ci hai lo spirito de contraddizione? Se vede che sei ‘n maschio… (sospira) Eh quan’è ingrato il mondo. Però succedono pure ‘n sacco de cose buffe. Roberto, per esempio. Se ci penso mi scompiscio. Molla la svedese co’ tre fije, va in India a girà du’ chilometri de pellicola… 500 cavalli alle frontiere del Tibet… poi torna in Italia co’ ‘n indiana incinta… Quella se sgrava e je fa ‘n fijo… Mò quanti ce n’ha de fij, ‘sto matto? Uno da Marcella, la prima moglie… tre co’ la svedese… una ce l’ha già lei… poi ‘n altro co’ l’indiana che se n’è portato pure uno suo… Boh! Deve avecce ‘n’agenda solo pei compleanni de la famija… E l’indiana? Sonali Das Gupta: misteriosa come il Gange… bella come una dea… Così scrivono i giornali. Bella? Se je metti ‘n tajerino, pare subbito ‘n’abbruzzese! (ride) E Goffredo? Il grande regista nato al Cairo, educato a Cambridge… dopo aver lavorato in Italia e a Hollywood, ‘ndò sta, adesso? A Ostia, sta. E m’ha fatto causa per avere gli alimenti! Così me tocca pagaje 130.000 lire al mese!... Hai capito, PInù? E poi dicono che nun esco più. E ‘ndò vai? Preferisco le bestie. Mejo du’ gattini che giocano… O un merlo che fa l’indiano: come te… (pausa. Ricorda) Eravamo così, con Luchino… Durante la guerra era ricercato dai fascisti: io l’ho nascosto a casa mia, rischiando la vita… Poi il successo di “Bellissima”… Alla Biennale di Venezia, ‘st’ingrato, fa er Presidente della giuria… Ma siccome deve fa’ ‘n film co’ Maria Schell, invece de fa’ premià me per “Suor Letizia”, fa premiare lei!!! E De Sica? Mi vuole in un suo film, ma invece de mandarme er copione, me fa avè du’ paginette con la mia parte… A me! Ma perché? Me lo merito, d’esse insultata? Dimmelo te, Pinù. Non ho fatto bbene a mannello a farse da’ ‘n culo?... E come se non bastasse, questi del fisco me danno tre milioni e settecentomila lire d’arretrati! Me volevano ammazzà! Ma io ho studiato per due mesi il problema, perché ti danno questo, perché ti tolgono quello e i corsi, i ricorsi, l’anno solare, e poi sono andata ad affrontarli da sola, come Daniele nella fossa dei leoni. Parevano delle bestie braccate, gli sudavano gli occhi. Ma il rimborso me l’hanno dato! Me lo dovevano dà! (sorride) Non è per i soldi. Non siamo poveri, vero Pinù? Abbiamo ventidue appartamenti sparsi pe’ Roma… e denari investiti qua e là… E al nostro Luca non facciamo mancare niente, vero? (s’incupisce) Povero Luca. Quando il dottore mi disse che aveva la poliomielite… e che non avrebbe mai più camminato con le sue gambe… mi sentii morire. Perché, Cristo, perché? Aveva tre anni e mezzo e rideva e rideva sempre a sua madre… Ed era bello, bello come un angelo… come Massimo! Ma noi l’abbiamo fatto curare in Svizzera, vero, Pinuccio? E adesso s’è fatta ‘na vita sua… E pure se il padre mi lasciò con questo dolore… e non s’è quasi fatto più vivo… abbiamo superato anche questo… Ma che dicevo? Ah, sì, non è per i soldi: è per il lavoro, per la soddisfazione… Da un po’ di tempo va tutto storto. Mi aspettavo tanto da Pisolini e invece anche lui si è servito di me, mi ha usata… Quer film che ho fatto in Francia era proprio ‘na puzzonata… E pure l’altro, quello con Totò… Io glielo avevo detto a Monicelli che non lo voleva fa’, quer film: sentivo che mi squalificava… e infatti è andato male. E così nun me chiamano più, nun c’è spazio per me, nel cinema italiano. Oppure m’offrono delle schifezze. “Eulalia Torricelli da Forlì”, sì, proprio quella della canzonetta, ‘tacci loro! Insomma, no, non è il cinema che mi ha abbandonata: sono io che lo abbandono, perché il cinema è diventato povero, miserabile, pitocco, perché continua a offrirmi personaggi che non sono creature umane ma caricature, pupazzi imbecilli. E io la scema nun la faccio! (alla granula) Lo sai Pinù? C’è uno che mi sta appresso pe’ famme fa’ la televisione. Ma non mi convincerà mai! Per carità! Non mi sanno fotografare. E poi, fanno i cerchietti per terra e tu ci devi recitare dentro. Me ce vedi, Pinù, a recità dentro ‘n cerchio de gesso? (Flash-award A. canta “Il soldato innamorato”, come la Magnani nel film televisivo di Alfredo Riannetti, “La sciantosa”, del 1971. Finita la canzone guarda l’ora) Uffa quant’è presto! Non fa mai giorno. E di notte, a me, con la Magnani non mi piace starci. Pinuccio, Pinuccio… Se ripenso a tutti questi anni di lavoro nel cinema, me viè ‘na rabbia! Avrei potuto fa’ ‘n sacco de cose e invece… Me pare solo d’esse stata ‘n’mpiegata diligente. Ho eseguito, ho anche inventato, ma il cinema è quello che è. Provi, riprovi, fai cento ciak, tanto uno bbono se rimedia sempre. Il fatto è che il cinema è tutto in superficie. Ormai è un’arte commerciale. Il teatro è diverso. Io penso d’esse rimasta quella che ero all’inizio: un’attrice di teatro. Soprattutto un’attrice di teatro. In teatro un personaggio lo studi, lo svisceri, lo approfondisci per quaranta, cinquanta giorni, otto, nove, dieci ore al giorno… poi o rifinisci sera per sera, con il pubblico. Puoi anche cambiarlo, farlo ogni volta differente dalla volta precedente. In teatro, il personaggio nasce dalla tua fatica. In cinema, dalla tua faccia. Io ho bisogno di questi personaggi che nascono da uno sforzo di verità perché io… sono vera. Capisci, Pinù? Io, la Magnani, sono vera! So’ vera qua, ne l’occhi… qua, ne la bbocca, ne le zinne, ne l’utero, ner buciod er… Uno m’ha proposto de fa’ “Madre Coraggio” de Brecht co’ quer famoso regista de Milano che poi nun è de Milano ma de Trieste… Strehler, Giorgio Strehler… Ma te pare che me metto a fa’ la recitazione epica? Estraniata, io? Ma che vòi ‘stranià, più strana de così!... (ride) No, scherzi a parte, io… non la racconto, ‘na figura de donna, nun so’ capace a raccontalla… Io la vivo… Io so’ io… Io? Chi so’ io? E che ne so? Chi sono, io, in questo momento? So’ io o so’ la Magnani? Che sto a ffa? Sto a ffa’ la Magnani o sto a ffa’ me stessa?... No, Pinuccio: non esagero… davvero non lo so… chi so’? Boh. Me ce perdo. ‘Sta fija de ‘na mignatta de la Magnani è ‘na mignotta… Te s’attacca, t’appiccica la sua disperazione… (disperata, cerca uno specchio) Ma è mia o è sua ‘sta disperazione? Chi sono? So’ io. O so’ lei? (trova uno specchio. Si guarda) eccome qua. Tranquilla. Bbona. Tutt’apposto. So’ io. So’ Anna Magnani, Pinuccio. (gli fa il verso) “Ciao, amore”! Nun me lo dici, “Ciao, amore”, amore? No? Nun te va? (il merlo tace) Che fai? Ricominci a ffa’ l’indiano? Affanculo, PInù. Sei peggio de quell’indiana de Robberto… come si chiama? Ah, la Sònali. Te sòno io, a te, si nun parli. E daje! E parla! (il merlo tace. Anna inizia la canzone “Non sarà che sei Roma?”. Canta)
Pino mio, che te prende stasera?
Nun lo vedi? So’ triste, so’ sola,
si nun parli il mio còre nun vola,
si nun parli manch’io parlo più
Guarda fòri: ‘vedi quan’è nera
Roma porca, che Dio la perdoni.
Ma dar cielo, voi furmini e tuoni
nun scegnete de schianto quaggiù?
Ma nun sarai tu,
nero merlo ‘mpunito
che si’ ammaìto,
non sarà che sei Roma?
Ma nun sarai tu
Roma nera de preti
De mondezze e segreti
Non sarà che sei Roma?
Nero sei, ne le penne e ner còre
E nun parli, a Sor Caciocavallo!
Ma quer becco, perdio, ce l’hai giallo
E c’hai lìoro ne l’occhi, lissù…
Perciò nun fa’ lo stronzo stasera
Nun lo vedi? So’ triste, so’ sola
Si nun parli il mio còre nun vola
Si nun parli manch’io parlo più
Ma no, nun sei tu
Roma nera de preti
De mondezze e segreti
Si parli Pinù
Io a ‘ste cazzate
Nun ce penzerò più
Mai più
Mai più…
(Singhiozza. Implora. Parlato) E parla! Parla! (il merlo tace. A. si butta su una poltrona. Piange, disperata. Poi, il merlo)
MERLO: Ciao, amore!
A: (lo guarda. Sorride tra le lacrime. Poi ride, con la sua contagiosa risata).

SIPARIO



FINE

 
 
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