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Ernesto Che Guevara 1998

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Frammenti di un mito
Musical in 14 giornate

La scena
Consta di un grande cubo metallico tubolare, a giorno, leggero e maneggevole. Il cubo ha solo la parete di fondo ricoperta di legno ed è girevole. I suoi movimenti indicano spezzature ritmiche e temporali e nuove dislocazioni. Il sipario è incorniciato da tralicci di ferro fissi, due ai lati e uno in alto. Sia i tralicci che il cubo centrale servono come americane per le luci. Il pavimento è ricoperto da un grande tappeto verde boscaglia.

I costumi
Primeggiano le uniformi verde oliva dei guerriglieri e dei capi. Neri i costumi dei boliviani e dell’ambasciatore americano. Per il resto abiti vaporosi e colori chiari.

Le musiche
(prima parte) Tango – Ninna nanna – Valzer del lebbrosario – Musica guatemalteca – Festoso motivo messicano – Un tango – Guantanamera (motivo)
(seconda parte) El condor – Motivo nordamericano – Ritmo rock anni Sessanta – Guajira cubana – Guantanamera (motivo)

Le canzoni
(prima parte) Ho messo nel mio termos il Sudamerica – È partito per terra e per mare – Due coglioni – Città di pietra – Berceuse eterodossa – Nada mas, coro dei lebbrosi – Yo soy de un paìs de fantasia – In qualche luogo sperduto – Mi corazòn – La canzone della Sierra Maestra
(seconda parte) La ex-compagna – El condor – Donna condor – Duetto dell’Onu – Canzone verde oliva – Duetto dello scontro – Che Comandante – La mia nina – I coglioni della speranza – Guantanamera – L’agguato – Lettera ai figli

PRIMA PARTE

Prima giornata: 3 gennaio 1952. Miramar, Argentina
1 – Chichina
Musica: le note di un tango. Entra in bicicletta Ernesto Guevara. Ha 24 anni. Fa varie evoluzioni ritmiche in bicicletta, poi si ferma e, sur place, canta “Ho messo nel mio termos il Sudamerica”.

ERNESTO: Ho messo nel mio termos il Sudamerica
ho messo nel mio termos il Sudamerica
Una milonga voglio ballar(e)
col diavolo in Perù o dove sia
Han suonato il bandoneon
in tutte le taverne di Buenos Aires
Ho visto in Uruguay cavalcare una chitarra
e senza corde ho scalato la Cordigliera
schiuma bianca d’America Latina
In Brasile ho picchiato un tale in una balera
Il pesce rosso è come un guerrigliero
In Colombia chi balla il tango è un filibustiere
Voglio filtrar(e) tutte le acque dei fiumi
lavar(e) la faccia ai negri
Dimmi se ti ricordi
il nome di quel bosco
dove un giorno ci siamo perduti
passeggiando, noi due
La foresta aveva
un sapore di mango
ed i cocchi si offrivano
al passaggio di noi

Ho messo nel mio termos il Sudamerica
ho messo nel mio termos il Sudamerica
Una milonga voglio ballar(e)
col diavolo in Perù o dove sia
Han suonato il bandoneon
in tutte le taverne di Buenos Aires
Ho visto in Uruguay cavalcare una chitarra
e senza corde ho scalato la Cordigliera
schiuma bianca d’America Latina
In Brasile ho picchiato un tale in una balera
Il pesce rosso è come un guerrigliero
In Colombia chi balla il tango è un filibustiere
Voglio filtrar(e) tutte le acque dei fiumi

Ho messo nel mio termos il Sudamerica
Ho messo nel mio termos il Sudamerica
Finita la canzone, Ernesto smonta dalla bicicletta e si siede sul gradino della struttura centrale. Attende con palese impazienza. Entra Chichina: è bella, bruna, disinvolta, viziata; senza parlare i due si baciano con passione e si stendono a terra; effusioni amorose.
CHICHINA: No, stai fermo. Così no, Ernesto!
ERNESTO: Perché no? Domani parto.
CHICHINA: Proprio per questo.
ERNESTO: Non vuoi darmi un vero saluto?
CHICHINA: Noo! Ti piacerebbe, eh? Lasciarmi qui nei guai mentre tu te vai in giro in tutto il Sudamerica!
ERNESTO: Ma io torno, Chichina! Quante volte devo dirtelo? T’ho perfino lasciato in pegno un cagnolino.
CHICHINA: È così carino, “Come back”!
ERNESTO: Appunto. “Come back”: torno. Anch’io torno.
CHICHINA: Torni, torni… Ma quand’è che torni?
ERNESTO: Te l’ho detto tante volte. Tra due, tre, quattro mesi. Non lo so! Non è mica un viaggio turistico organizzato!
CHICHINA: D’accordo, ma io che farò?
ERNESTO: Se mi ami, mi aspetterai.
CHICHINA: L’anno scorso ti ho aspettato. Ti sei fatta tutta l’Argentina del Nord in bicicletta, 4.500 chilometri! E ora prendi su in moto il tuo amico Alberto e te ne vai a scorrazzare in tutti gli stati latinoamericani. Ma insomma, chi è il mio fidanzato? Un futuro medico o un corridore ciclista? O, peggio ancora, un centauro motociclista?
ERNESTO: Sono ciclista, motociclista, scacchista, rugbista, tennista e futuro specialista in allergologia. E, a sentire il Barone tuo padre, sarei anche comunista.
CHICHINA: Papà ha ragione, scusa! A volte fai certi discorsi così assurdi, così… estremisti!
ERNESTO: Per esempio…?
CHICHINA: L’altro giorno eravamo lì, in villa, a mangiare pasticcino sorseggiando champagne… e tu ne esci davanti a tutti e ti metti a parlare di… socializzazione della medicina!
ERNESTO: Cercavo solo di riempire quelle teste vuote dei tuoi amici… ma loro pensano solo a riempirsi le tasche!
CHICHINA: Li disprezzi perché sono ricchi? Ma anche tu sei ricco, Senor Ernesto Guevara Lunch de la Serna!
ERNESTO: Mio padre è insegnante e costruttore edile, non è di certo un Barone latifondista!
CHICHINA: Va bene, mio padre sarà anche un pescecane, ma non ha mai divorato nessuno! E i miei amici non li puoi vedere perché sono eleganti, mentre tu ti conci come un “guajiro”! Credi di essere più affascinante, vestito da contadino?
ERNESTO: Se dessi retta a te, andrei in giro come loro, coi pullover inglesi, gli stivali di cuoio crudo e le cravatte di seta. Sono tutti colletto e camicia, rigidi come pinguini!
CHICHINA: E tu, allora, con la tua eterna camicia di nylon…?
ERNESTO: Cosa c’è, non ti piace la mia “semanera”?
CHICHINA: C’è che, per l’appunto, è una “semanera”, la porti per una settimana sana sana, senza lavarla!
ERNESTO: La lavo una volta alla settimana e non la stiro, perché si stira da sola… e con questo?
CHICHINA: E con questo c’è che puzza! Odora di sudaticcio! Di sporco!
ERNESTO: È vero. Sono sporco.
CHICHINA: E lo dici così?
ERNESTO: Per me è una difesa.
CHICHINA: Una difesa? E da che?
ERNESTO: Dall’acqua fredda.
CHICHINA: Dall’acqua fredda?
ERNESTO: È per via dell’acqua fredda che m’è venuta l’asma, quando avevo solo tre anni… Pensavo che tu lo sapessi.
CHICHINA: Ma è chiaro che lo so, che ci hai l’asma! Lo sanno tutti. È la parte più importante del tuo piccolo carisma! Ma non sapevo che ti fosse venuta per l’acqua fredda.
ERNESTO: È stato un capriccio, ho voluto fare un bagno in un fiume gelato. Ora lo sai. Ancora oggi l’acqua fredda mi scatena degli attacchi. La mia vita sarà per sempre segnata dall’odio per i bagni, le docce, le piscine. Saperlo ti può servire, per quando saremo sposati. Non sono uno snob, Chichina. Sono un asmatico cronico.
CHICHINA: Ma sì, povero amore… A proposito, ti sei portato il tuo inalatore, per il viaggio? E un bel po’ di flaconi di Ventolin?
ERNESTO: È tutto sotto controllo.
CHICHINA: Partirai davvero domani? Hai proprio deciso?
ERNESTO: Dovresti conoscermi, ormai.
CHICHINA: Ti conosco ma non ti capisco. Ti mancano ancora quindici esami per la laurea. Non potevi rimandarlo a dopo, il tuo viaggio?
ERNESTO: Non ti preoccupare: ti assicuro che quando tornerò mi metterò a studiare come un matto e recupererò. E poi, te l’ho già detto. Il nostro è un viaggio di studio, non è una scampagnata. Alberto Granado è medico biochimico e ha già lavorato in un Lebbrosario. Io mi interesso molto alla lebbra dal punto di vista sociale, lo capisci, questo?
CHICHINA: Noo! La lebbra è una malattia orrenda!
ERNESTO: Proprio per questo voglio vedere come vivono i lebbrosi… Io mi considero in missione!
CHICHINA: E se ti becchi la lebbra, missionario?
ERNESTO: Cazzate! Solo una bassa percentuale di malati è contagiosa, la lebbra secca, per esempio, non è per niente infettiva…
CHICHINA: Ma è pur sempre lebbra! Già è tutto così difficile, a casa, con i miei… Ma se torni con la lebbra, papà non vorrà più che ti veda. E allora, addio matrimonio! (pausa) Non parlo per me. Io ti amo. Sarei anche capace di leccarle, le tue piaghe purulente.
ERNESTO: (abbracciandola) Non ce ne sarà bisogno, sciocchina.
CHICHINA: E va bene. Vai, se proprio vuoi. Ma resta ancora qualche giorno con me a Miramar.
ERNESTO: Non posso. Ci siamo fermati troppo. Doveva essere solo una parentesi d’amore, prima del grande viaggio, e invece siamo qui da un mese. Alberto comincia a diventare scettico, non ci crede più che partiamo. E mi prende in giro. Dice che un innamorato siede sull’ultimo gradino della scala sociale.
CHICHINA: Lascialo dire. È un cretino invidioso. Ed è anche piccolo e brutto.
ERNESTO: Ho promesso di partire domani e manterrò la parola. Ma tu sai che anch’io ti amo. Non vuoi darmi un ricordo?
CHICHINA: No! Niente prova d’amore!
ERNESTO: Ma cos’hai capito? Volevo dire un oggetto. Per esempio, il tuo braccialetto. Mi parlerà di te per tutto il viaggio.
CHICHINA: Eccolo, prendilo. È d’oro. Ventinove carati d’amore.
ERNESTO: Ciao, tesoro.
(Bacio).
CHICHINA: (con le lacrime agli occhi) Mi scriverai?
ERNESTO: A ogni tappa. E il nostro tour ne farà mille.
CHICHINA: Che bello! Mille lettere d’amore! Promesso?
ERNESTO: (evasivo, s’è sbilanciato troppo) Ti scriverò, Chichina. Tornerò sano e salvo e ti tirerò giù da quella nuvola dorata dove i tuoi si ostinano a farti vivere…
(Sale in bicicletta ed esce senza guardarsi indietro. Chichina, rimasta sola, canta “È partito per mare e per terra”).
CHICHINA: È partito per mare e per terra
è partito d’inverno e d’estate
è partito con scarpe ferrate
a scalare le rocce e la Sierra
Ma se all’improvviso
vorrà dimenticarmi
non potrà più cercarmi
anch’io lo scorderò
Fratte e mangrovie, latte e farina
sudore, frutta, albero del pane
yerba mate e pompelmi e banane
fame e stenti e yucca e uva spina
Ma se all’improvviso vorrà dimenticarmi
non potrà più cercarmi: anch’io lo scorderò
È partito come Don Chisciotte
è partito con lui Sancho Panza
avranno avventure in abbondanza
torneranno con le scarpe rotte
Ma se all’improvviso vorrà dimenticarmi
giuro, mi strappo gli occhi per non vederlo più.
(Esce).

Seconda giornata: 3 aprile 1952. Sul Machu Picchiu, Perù
2 – Sul Machu Picchu

Entrano Alberto Granado (piccolo, sulla trentina) e Ernesto. Sono laceri sporchi e impolverati. E a piedi

ERNESTO: Non c’era altro a fare.
ALBERTO: (distratto) Uhm uhm…
ERNESTO: Bisognava abbandonarla.
ALBERTO: Capisco.
ERNESTO: Però m’è dispiaciuto, sai?
ALBERTO: Lo credo bene.
ERNESTO: Perché bella era bella.
ALBERTO: Eccome.
ERNESTO: Mi manca, sai? Me la sento ancora tra le gambe…
ALBERTO: (stupito) Te la sei scopata?
ERNESTO: (stupidissimo) Chi? La motocicletta?
ALBERTO: Ma che motocicletta! Sto parlando di Chichina!
ERNESTO: E io parlo della nostra “Poderosa”, la motocicletta!
ALBERTO: Oh cazzo, questo sì che è un equivoco! (ridono) Scusami, sai, ero distratto. Ero convinto che pensassi ancora a Chichina.
ERNESTO: Dopo sette mesi? No, no: da quando mi ha scritto quella lettera di liquidazione, sono in pace con me stesso. Sì, a volte mi torna in mente. Povera Chichina. Starà dicendo a qualche altro amoroso quelle sue frasi piene di melassa. Ma anche per me è dolce, il suo ricordo. Sa più di miele che di fiele.
ALBERTO: Io invece rimpiango la moto. Era inaffidabile, questo sì. Ci pensi a quante volte ci ha lasciati col culo a terra? E noi stronzi lì a trascinarla: pesava più di un carro armato. Però, almeno, quando funzionava… E invece adesso eccoci qui. Pellegrini del cazzo in questo cazzo di Perù. E i bambini ci ridono dietro. Per non parlare dei grandi. Come ci ha detto, ieri, quel marinaio cileno in quella bettola?... Amici, state cazzeggiando come veri cazzoni, perché non la piantate con le cazzate e non tornate col cazzo tra le gambe nel vostro cazzutissimo paese?
(Ridono, salgono sulla struttura. Ernesto indica un punto).
ERNESTO: Guarda lassù, Alberto. Ci siamo, finalmente.
ALBERTO: Eccola lì, la montagna sacra degli Incas.
ERNESTO: Hellò, Machu Picchu, sempre con la testa tra le nuvole!
(canta “Alta città di pietra” da Neruda)
Alta città di pietra fatta a scale
da sempre sei il tempio del mistero
che si cela nel saio tuo arroccato.
In te, come una linea trasversale
che si ritorce al pari d’un sentiero.
dondola al vento il luogo consacrato
culla dell’uomo e culla dell’arcano,
del fuoco del lampo e della luce.
Madre di pietra, sommità del condor,
alta scogliera dell’aurora umana,
pala d’altare, illumini e conduci
su spiagge antiche; lì finisce il mondo.
Ridiscendono; si siedono sui gradini; su un fornello a gas mettono a bollire il “mate”, l’erba aromatica di cui sono ghiotti gli argentini. La sorbiscono con le cannucce d’acciaio.
ALBERTO: Sai che gli Incas praticavano la trapanazione del cranio? Dovevano avere un grado di civiltà superiore a quello degli Egiziani.
ERNESTO: Già. E pensare che quei mangiaterra degli Europei spedivano i loro eserciti di ladri e di zoticoni a civilizzarli… quando non li ammazzavano come insetti.
ALBERTO: Gli Incas erano insuperabili nella lavorazione della pietra. Avevano un’erba capace di rammollirla e di renderla tenera e plasmabile come argilla. Se ci penso, mi emoziono: il nostro “mate” bolle qui, sulla stessa pietra dove venivano immolate le vergini Incas…
ERNESTO: Non mi frega un cazzo delle vergini Incas, ho osservato le facce della gente, degli uomini e delle donne di oggi. Sono rassegnati e sofferenti come i loro antenati, quelli che si calarono le braghe davanti agli spagnoli.
(Alberto si stende per terra, guarda in alto).
ALBERTO: Sai che farò, Ernesto? Sposerò una mia amica di Cuzco che discende da Re Manco Capac II. Fatalmente diventerò Manco Capac III. E organizzerò i Tupamaros per fare una rivoluzione guidata dal mio partito. Il mio popolo mi voterà e io porterò i Tupamaros al potere…
ERNESTO: E dopo ti svegli. Via, “petiso”! Una rivoluzione per via elettorale, senza armi! Devi essere stanco. (si addormenta a terra. Musica: tema del Machu Picchu. Notte fonda. Ernesto ha un attocco d’asma)
ALBERTO: È l’asma, Ernesto…?
ERNESTO: (sofferente, fa un segno d’assenso) Mai avuto un attacco così forte. Si vede che l’aria di montagna…
ALBERTO: Hai bisogno di qualcosa? Vuoi che ti faccia un’iniezione di adrenalina?
ERNESTO: (si inalbera, scatta) Faccio da solo, non ti preoccupare! (si alza a fatica e prende una siringa dal suo sacco. Si fa un’iniezione poi si accascia a terra)
ALBERTO: Hai le palle, tu. Conosco gente che con un malanno come il tuo non metterebbe il naso fuori del suo quartiere. (estrae un’armonica a bocca canta una ninna nanna, la “Berceuse eterodossa”)
È brutta la mia vita
da morto sarò bello
quando sarà finita

La bocca satiresca
avrà il sorriso lieve
di chi dormendo pesca

Il ricordo dei baci
la morte è solo un sonno
rimane anche se taci

Ma gli occhi color vetro
avranno un brillio strano:
come guardare indietro

E tutto di me morto
dirà: Grazie mia cara
che conforto il tuo corpo

Il ricordo dei baci
la morte è solo un sonno
scrive versi loquaci.
Finita la canzone si addormenta.

Terza giornata: 14 giugno 1952. Lebbrosario di San Paolo
3 – Tenera è la notte lebbrosa

Entra un gruppo di lebbrosi – quattro, una donna e tre uomini – che portano sul viso maschere di caucciù che deformano i loro lineamenti rendendoli animaleschi. Il gruppo canta “Nada mas”, coro dei lebbrosi.

CORO: Lenta cala a San Paolo la sera
con una capanna e un cavallo
la pena sarebbe più leggera
Il ricordo dei bei giorni sani
come legno di sandalo brucia.
UNA VOCE: Nada mas
siamo come i puma nelle selve
nascosti e feroci, siamo belve.
CORO: I nostri conti sono con la vita
niente abbiamo da saldare con Dio
la nostra voce corre lungo il fiume
cantiamo fino al giorno dell’addio
niente abbiamo da dire sulla terra.
UNA VOCE: Nada mas
siamo come i puma nelle selve
nascosti e feroci, siamo belve
Tronchi ammuffiti, foglie putrefatte
grondiamo nei boschi goccia a goccia
ombre di noi, fantasmi ancora in vita
verrà la morte, giorno della festa.
Escono; entrano litigando Alberto e Ernesto, come continuando una discussione già cominciata.
ALBERTO: Sei stato un cafone, un perfetto cafone! Come hai potuto umiliarlo così?
ERNESTO: Guarda che se l’è cercata!
ALBERTO: Che bisogno c’era di spiattellargli in faccia tutto quello che pensavi? E poi un po’ di misura, Cristo! Cosa sei? Un sociologo? Un critico letterario? Un saggista?
ERNESTO: No. Ho semplicemente espresso la mia opinione.
ALBERTO: Be’, potevi farne a meno, guarda.
ERNESTO: Sai benissimo che non volevo dirgli niente, ma lui insisteva! Voleva per forza avere il mio giudizio! Che dovevo fare? Alla fine glie l’ho dato!
ALBERTO: Bella roba! Potevi fingere!
ERNESTO: E perché dovevo fingere?
ALBERTO: E me lo chiedi? Ma come! Siamo senza un soldo e il Professor Pesce, al quale io sono stato raccomandato, si prende la briga di venirci a prelevare a Lima con la jeep e ci porta qui, al Lebbrosario di San Pablo…
ERNESTO: Sì, ma…
ALBERTO: … di cui lui, bada bene, è Direttore…
ERNESTO: D’accordo, però il punto è un altro!
ALBERTO: E quale sarebbe? Che lui ci presenta la sua segretaria e tu, tra parentesi, te la zompi a volo radente…?
ERNESTO: E allora? Dovevo pensarci su?
ALBERTO: E lei ci ospita, ci rimpinza, ci lava le mutande…
ERNESTO: Un po’ di merito ce l’avrò anche io, no?
ALBERTO: Con chi?
ERNESTO: Con Zoraide, no…? La Boluarte!
ALBERTO: E che c’entra lei? Io sto parlando di quella degnissima persona che è il Professor Pesce, grande leprologo e, in più, noto comunista… Questo cazzo di Pesce ha scritto un cazzo di libro – non sarà un delitto, no? – e in questo cazzo di libro parla della vita dei contadini dell’altopiano del cazzo… dov’è l’errore? Lui ci fa leggere ‘sta cosa, ne va tutto fiero – che c’è di male? – e io dolce dolce gli dico il mio parere lattemiele e tu invece che fai? Patatrac, senza nemmeno un grammo di diplomazia gli sbatti in faccia la tua critica: - Non capisco come mai lei, caro Professore, che è un uomo di sinistra, abbia potuto scrivere un libro così decadente, che non dà alternative agli indios e ai meticci… – Ti pare il modo?
ERNESTO: Sì, perdio! E sono stato gentile! Il suo libro è illeggibile, è bassa letteratura e falsa antropologia, e per di più, è scritto in modo orribilmente ampolloso!
Si lasciano, uscendo uno da una parte e uno dall’altra. Entra Silvio Lozono, un cubano ex-lebbroso; il suo è un monologo posticipato, flash forward.
SILVIO: Mi chiamo Silvio Lozono, gestisco un bar a Cuba. L’ho chiamato “Bar del Che”, in memoria di Ernesto Guevara. Molti anni fa, nel 1952, mi trovavo nel Lebbrosario di San Pablo, in Perù. Ero uno dei tanti lebbrosi condannati a morire a breve scadenza. Una notte venne a trovarmi un dottore sconosciuto, un argentino, mi dissero, che non aveva neanche 25 anni. Era lui, il Che. Io stavo malissimo, i dottori mi avevano già dato per spacciato. Lui mi toccò il braccio e lo tastò a lungo, poi se ne andò. Tornò poco dopo, con un altro medico, argentino pure lui. Il Che mi disse: - Il nervo è intaccato, bisogna operare subito se no sei fottuto. – Io avevo paura ma dissi che mi fidavo. Mi operarono tutti e due. Quando mi infilarono gli aghi nella piaga gridai e svenni. L’operazione, però, era riuscita. Da allora, tutto cambiò, nel Lebbrosario di San Pablo.
(Esce.
Entra un gruppo di malati che prepara il palco per lo show di Ernesto e di Alberto. Musica: il motivo di “Yo soy de un paìs de fantasia”. Entrano Alberto e Ernesto truccati da clown; cantano duettando).
ERNESTO: Yo soy de un paìs de fantasia
donde la gente dice « la cosa està asì no es asì »
y como carajo serà la cosa no lo dice
ALBERTO: Yo soy de un paìs donde suceden
todas estas cosas y aun austras
y el pueblo sufre traiciones y malvades
en excesiva cantitad y naides lo defiende.
ERNESTO: Yo soy de un paìs complicadisimo
latinoeurocosmopoliurbano
criollojudiopolacogallegoitaliano
segùn dicen los textos
pero lo textos que dicen
porqué dicen y como dicen?
INSIEME: De este paìs de fantasia
se fue Guevara una manana
se fue Guevava una manana
y buenas tarde senoras y senoritas.
(Appluasi del pubblico dei lebbrosi).
ERNESTO: Ed ora, una canzone peruviana che ho imparato per voi.
(Canta “In qualche luogo sperduto).
In qualche luogo sperduto
del nostro continente
dove abita, indigente,
l’oscuro fratellastro dell’uomo
dove vive l’eredità del tuono
dove risuona quotidiana
la stessa musichetta
dell’odio e delle catene
dove la terra è una vecchia puttana
che si commuove solamente
quando arrivo l’eunuco
proprietario ladro di granai
in qualche luogo dimenticato
del nostro continente
in qualche città
in uno dei poveri ghetti
da sempre pozzi negletti
dove l’uomo riceve
il suo fardello giornaliero
d’ingiurie e di percosse
insomma in qualche luogo angusto
dell’America Latina
forse è già nato l’uomo giusto
che ci riscatti dalla vita.
(Nuovi applausi; Ernesto alza le braccia).
Grazie, amici, siete troppo generosi… Io… devo dirvi che oggi 14 giugno 1952, io, uomo comune, compio 24 anni. Sono vicino alle nozze d’argento con la vita. Ebbene, tutti voi e il personale di San Pablo mi avete festeggiato quasi senza conoscermi, come uno di voi. Grazie. La bellezza del Perù scompare di fronte alla bellezza delle vostre anime. Tra poco il mio amico e io riprenderemo la nostra strada. Che è molto lunga e che a me, permettetemi una confidenza, è già costata una fidanzatina che giustamente s’era stufata d’aspettarmi… Ma io volevo dirvi un’altra cosa. Durante la nostra traversata dell’America m’è venuto fatto di pensare che la divisione del nostro continente in nazioni incerte e illusorie sia fittizia. Noi latinoamericani siamo in realtà una sola razza meticcia che dal Messico allo stretto di Magellano è, dal punto di vista etnico, molto simile. Per questo, amici, brindo con voi al Perù e all’America unita!
(Brinda, alzando le braccia come un capo di stato. Applausi: Ernesto chiede a Alberto, sottovoce) Com’è andato il mio primo discorso in pubblico?
ALBERTO: Con le braccia aperte eri Peròn sputato. Gigione!
(Due malati portano una targa di legno dove si legge “Mambo – Tango”)
MALATO: Amici dottori, non ve ne andrete da San Pablo senza la zattera che abbiamo costruito per voi con le nostre mani malate. L’abbiamo riempita di benedizioni che spaventeranno gli spiriti maligni che si presenteranno sul Rio delle Amazzoni. Buon viaggio!
Grandi urrà di tutti; i due dottori abbracciano i lebbrosi e salgono sul lato della struttura che funge da zattera. La zattera vira sul girevole, mentre sul bordo del fiume rimane il gruppo di lebbrosi. L’orchestrina dei malati – pianista cieco, chitarrista con due dita, ecc. – suona lo struggente “Valzer del lebbrosario”. La zattera gira su se stessa; a giro ultimato, i lebbrosi sono scomparsi.
ERNESTO: Quando saremo in Venezuela resterai a Caracas, vero?
ALBERTO: Sai che m’hanno offerto un lavoro. E tu torni a Baires?
ERNESTO: Devo laurearmi.
ALBERTO: Sarà strano separarsi, dopo tante esperienze insieme.
ERNESTO: Penso che dovunque mi troverò mi volterò indietro, per dirti qualcosa o per dividere con te qualche emozione. Solo allora mi renderò conto che non ci sei. Ma il nostro viaggio nessuno può cancellarlo.
ALBERTO: Sai, Ernesto? Anch’io mi sono fatta un’opinione sulla nostra America. Abbiamo incontrato un sacco di gente, soprattutto di umile condizione. Be’… mi sembra che l’idea di un cambiamento sia più nostra che loro. In Cile, in Colombia, in Bolivia, in Perù, ho visto solo la faccia della rassegnazione. Noi… lotteremo per un popolo immaturo. Il prezzo della trasformazione sarà alto e il processo sarà lungo. E noi, Ernesto, moriremo con il pugno chiuso e con la mascella serrata.
ERNESTO: Ti capisco, Alberto: ma io mi conosco. Sono un sofista benestante, un borghese teorico che non è mai stato militante. Però sono fratello e compagno di ogni giovane che sa indignarsi di fronte all’ingiustizia. Per questo starò sempre dalla parte del popolo, comunque lo si voglia vedere, questo benedetto popolo… (si esalta) Ma io so, lo vedo qui, scritto nel fiume, stampato nella notte, che la smetterò di analizzare i dogmi e di fare a fette le dottrine per passare all’azione! E allora griderò come un ossesso! Scaverò trincee e alzerò barricate, tingerò di sangue la mia arma! E non avrò paura della morte perché vivere con l’asma è come vivere con la morte, e come puoi temere la morte se per te è vita? Lotterò con il popolo e per il popolo e gli rivelerò la sua forza, perché il popolo è come il bue, ignora la sua forza!
(Torna, alto e possente il coro dei lebbrosi).

Quarta giornata: 12 lugliio 1955. Città del Messico, Casa di Ernesto e di Hilda Gadea
4 – Hilda, la prima moglie

Entra Hilda Gadea. È sulla trentina, ha qualche anno più di Ernesto.

HILDA: Ho conosciuto Ernesto Guevara il 20 dicembre 1953. Noi esiliati peruviani ci eravamo rifugiati a Città del Guatemala per sfuggire alla dittatura fascista del Generale Odrìa. Avevamo molte speranze nel Presidente guatemalteco, Ardenz, che era di tendenze liberali e si opponeva al monopolio nordamericano. Ma poi Ardenz fu costretto a cedere alla CIA. Io militavo nell’APRA, Alleanza Popolare Rivoluzionaria Americana, un Partito della sinistra non-comunista. Ernesto aveva la carnagione chiara, i capelli castani, gli occhi neri, grandi ed espressivi, il naso corto, i lineamenti regolari. Era alto, almeno per la statura media delle nostre parti: misurava 1,76-78. Nell’insieme era di gran bell’aspetto. Aveva una voce roca, molto maschia, e i suoi movimenti erano agili e rapidi. Dava la sensazione di essere molto controllato, aveva lo sguardo intelligente e indagatore e i suoi commenti erano acuti e taglienti. Sulle prime non mi piaceva, mi sembrava supponente e vanitoso. Come molti latinoamericani, diffidavo degli argentini per la loro fama di prepotenti e per la loro presunzione, essendo di un paese più sviluppato dei nostri.
(Come evocato, appare Ernesto).
ERNESTO: Ho letto il tuo biglietto, Hilda. È molto bello. Sono lusingato, non sapevo che fossi così presa. Quando ci siamo conosciuti pensavo addirittura che tu non mi potessi soffrire.
HILDA: Non ti sbaglaivi.
ERNESTO: Perché ce l’avevi con me?
HILDA: Così. Mi sembravi troppo bello per essere intelligente.
ERNESTO: Ma questa è una fottutissima esagerazione! Oltre che uno strafottuto luogo comune! (pausa). E poi?
HILDA: Eri così pieno di te.
ERNESTO: Mi ero appena laureato in medicina a un ritmo pazzesco, quindici esami in nove mesi! Ero fiero della mia performance. E poi?
HILDA: Ti credevo freddo e egoista.
ERNESTO: E poi?
HILDA: Ho cominciato a sognarti. E in ogni sogno il protagonista eri tu.
ERNESTO: Non c’è bisogno di ricorrere a Freud per capire che mi desideravi sessualmente.
HILDA: Lascialo stare il tuo Freud. Quella sua teoria che rimanda tutto al sesso mi dà fastidio: è come parlare con un maniaco sessuale. E poi non è di sesso che ti parlavo, nel biglietto.
ERNESTO: È vero. (pausa) Ho il dovere di avvertirti, Hilda. Io… posso offrirti solo dei contatti occasionali.
HILDA: Qualche scopata quando capita, vuoi dire?
ERNESTO: Be’, non esattamente. Io... non posso darti niente di definitivo, ecco tutto. Oggi sono qui, domani chissà. Alberto m’ha mandato un chilo di adrenalina per la mia asma e mi invita a raggiungerlo in Venezuela. Non so se ci andrò.
HILDA: Dove vuoi andare, cavaliere errante?
ERNESTO: A Parigi. Parigi mi attira col suo profumo di vino vecchio. Anche a nuoto la raggiungerei… L’hai finito di leggere il libro che t’ho regalato?
HILDA: Il “Martin Fierro” di Hernandez, dici? Certo. Mi è molto piaciuto, è la tua dedica che m’è dispiaciuta.
ERNESTO: Che diceva, sai che l’ho dimenticata?
HILDA: L’ho imparata a memoria. Dunque... “A Hilda, perché nel giorno del nostro addio si ricordi che me ne vado solo per conoscere nuovi orizzonti, spinto avanti dal mio spirito anarchico”.
ERNESTO: Ho scritto così? Cazzate. Non so perché, ma quando scrivo di argomenti che non sono né scientifici né politici o sociali, mi lascio prendere la mano dal tono melodrammatico.
HILDA: Però volevi dire che presto te ne andrai, vero?
ERNESTO: Non lo so. Tu hai un cuore di platino, mi riempi di attenzioni, mi presti del denaro, visto che guadagni tre volte più di quanto guadagni io come allergologo nel pidocchioso Ospedale Generale!
HILDA: Però?
ERNESTO: Nessun però. Mi sei piaciuta prima ancora che ti conoscessi.
HILDA: Madre di Dio! E come mai?
ERNESTO: In Guatemala si parlava molto di te.
HILDA: E che si diceva?
ERNESTO: Che eri la Ninfa Egeria dei “gauchistes” latinoamericani.
HILDA: Una cooperativa della sinistra, insomma?
ERNESTO: No, senza scherzi, eri stimata. Quando t’ho vista m’è piaciuto il tuo modo di parlare, di vestirti… A volte mi sentivo uno straccione, vicino a te. E poi i tuoi occhi. I più straordinari occhi a mandorla che abbia mai visto. Solo che… non mi ci vedo, sposato.
HILDA: Nessuno ha mai parlato di matrimonio.
ERNESTO: Non è esatto, io l’ho fatto, una volta. Ma era una leggerezza. È stato dopo aver fatto l’amore. Siccome andiamo d’accordo, a letto, volevo dirti qualcosa di gentile. Potremmo anche sposarci, naturalmente, ma per l’appunto sarebbe una leggerezza. Non ti pare?
HILDA: Già. Però, se ci trovassimo a un bivio, sposarsi o lasciarsi io preferirei che ci sposassimo.
ERNESTO: (non convinto) Sì, evidentemente, anch’io... (con fatuità) Quando saremo a Parigi ci sposeremo.
(Ernesto scompare. Hilda riprende la sua rievocazione).
HILDA: Invece che a Parigi, Ernesto andò a Città del Messico. E qui l’ho raggiunto, dopo varie traversie. Ero con Ernesto, quando ho conosciuto Fidel Castro. Castro aveva trent’anni, era robusto, portava i baffi ed era alto un metro e novanta. A guardarlo poteva benissimo essere un bel turista borghese, quando parlava, però, ti trascinava dove voleva lui. Gli chiesi perché stava in Messico, visto che la sua lotta era a Cuba. Mi rispose con un monologo di quattro ore. Ernesto e Fidel si intesero subito. Restarono insieme a parlare fino all’alba. Avevano molte cose in comune. Potevano essere considerati due esemplari del “macho” latino. Credevano nella debolezza delle donne e disprezzavano gli omosessuali. Amavano le imprese eroiche e gli uomini d’azione. Sì, avevano molte cose in comune, ma non si somigliavano affatto. Ernesto era pessimo, in cucina. Non assaggiava i miei piatti peruviani, li trovava troppo speziati e a base di pesce; e a lui il pesce e le spezie davano l’allergia. Fidel era una buona forchetta, beveva molto, amava cucinare, era lui stesso un ottimo cuoco. Le loro idee politiche, all’inizio, erano distanti, ma poi ci fu una convergenza.
La musica ad altissimo volume di un tango argentino, “In media luz”, interrompe la rievocazione di Hilda. Hilda esce.

Quinta giornata: 18 agosto 1955. Città del Messico, casa di Hilda e di Ernesto
5 – Fidel

Continua la musica del tango.
Irrompe in scena Maria Antonia, cubana tutto fuoco e senza peli sulla lingua.

MARIA ANTONIA: Vieni, Raùl! Balliamo questo tango in onore degli sposi e di Fidel, il nostro grande lìder!
(Entra in scena Raùl Castro. Giovane, biondiccio. Maria Antonia e Raùl ballano. Entrano in scena due altri esiliati che, in mancanza di altre donne, ballano tra loro. Evoluzioni coreografiche non prive di virtuosismi. Quindi entrano in scena gli sposi: Ernesto è insolitamente elegante, Hilda in bianco).
TUTTI: Viva gli sposi! È un tango, Ernesto! Fai vedere a noi poveri cubani come si balla l’autentico tango argentino!
ERNESTO: Preparatevi a una grande delusione…
(Hilda, che malgrado le nozze non è di buon umore, lo afferra bruscamente e comincia a ballare il tango. Ernesto è lento e impacciato).
HILDA: Ma cosa fai? Stai attento ai piedi!
ERNESTO: Perché, cos’hanno i miei piedi?
HILDA: Ma non vedi? Li strascichi! Dobbiamo ballare, mica dobbiamo pattinare!
ERNESTO: Come devo fare, allora?
HILDA: Ma sei proprio di caucciù, sai? Alzati da terra… e alza anche i ginocchi… così!
ERNESTO: I ginocchi no! Mi sento come un cane che fa pipì!
(Si fermano. Intorno a loro ridono tutti).
HILDA: Che roba! E io che mi aspettavo che mio marito fosse un grande “tanghero”!
ERNESTO: Non ditemi che non vi avevo avvertiti.
HILDA: Ma che argentino sei?
RAUL: Le tue quotazioni sono in ribasso, Ernesto. Da quando ti ho visto fare iniezioni ai gatti, all’Ospedale Generale, ho perso fiducia nelle tue capacità mediche. E adesso s’è scoperto che come ballerino sei una frana.,
ERNESTO: Quando viaggiavo col mio amico Alberto Granado, era lui che alle feste mi diceva all’orecchio che ballo era. Una volta se ne dimenticò e ballai un tango come un samba…
MARIA ANTONIA: Va bene, va bene, sono sicura che in altri campi sa farsi valere…!
(Fa un gesto osceno. Risate).
ERNESTO: Fidel è tornato, Raùl?
RAUL: È rientrato a Città del Messico stamattina.
ERNESTO: Credi che verrà?
RAUL: Stai tranquillo. Mio fratello non è come gli altri politici. Mantiene sempre quello che promette.
(Riprendono le danze. Stavolta è una rumba. Le coppie si allontanano, finiscono oltre i pannelli scorrevoli. Hilda è sempre imbronciata).
ERNESTO: Cosa hai? Davvero sei delusa perché non so ballare? O sei già pentita di avermi sposato?
(HIlda, senza rispondere, gli consegna il negativo di una foto).
HILDA: Chi è?
ERNESTO: (guarda il negativo) Dove l’hai trovato questo negativo?
HILDA: Nel taschino della tua camicia. Chi è? Non vuoi rispondermi?
ERNESTO: In negativo o in positivo?
HILDA: Risparmiami il tuo spirito. Chi è questa puttana tutta nuda?
ERNESTO: Ma che nuda! È in costume da bagno. Un due pezzi un po’ succinto, d’accordo, ma…
HILDA: (esasperata) Ernesto!
ERNESTO: È Marta, la figlia di Petit de Murat, l’attore messicano che voleva convincermi a fare il cinema.
HILDA: Tu, il cinema? Che idea stronza!
ERNESTO: Perché no? Avevo quasi accettato, volevo mettere alla prova le mie ambizioni artistiche represse. Ma poi Marta m’ha detto che ero troppo intelligente per fare l’attore.
HILDA: Che c’è stato tra voi? Te la sei scopata?
ERNESTO: Marta è molto carina, ma è una borghese clericaloide con tendenze reazionarie. Con lei mi sono scornato sullo stesso argomento che è stato il motivo di tanti nostri litigi, la libertà nella coppia…
HILDA: L’hai chiavata o no?
ERNESTO: Che importanza ha? E poi basta, sei diventata morbosa! Non te l’hanno detto, all’APRA, che la gelosia è socialdemocratica?
HILDA: E le corna che sono? Comuniste? In quanto al… mio partito, smettila di prenderlo in giro!
ERNESTO: Non lo prendo in giro, mi fa schifo. Il vostro capo, quel Della Torre, prima voleva nazionalizzare il canale di Panama e combattere il colonialismo, ora invece s’è venduto ai nordamericani.
HILDA: Sei male informato! È vero che Della Torre ha accettato gli aiuti degli Stati Uniti per l’APRA, ma la sua è solo una tattica! Una volta al potere, trasformeremo il Perù!
ERNESTO: E come ci arriverete, al potere?
HILDA: Per la via democratica. Con le elezioni.
ERNESTO: Ti illudi. Un Partito che va alle elezioni non può rimanere rivoluzionario. Per forza di cose finirà per patteggiare con la destra e per cercare accordi con gli Stati Uniti.
HILDA: Allora, secondo te, la funzione dei partiti d’opposizione è nulla?
ERNESTO: Assolutamente.
HILDA: Anche quella dei partiti comunisti latinoamericani?
ERNESTO: Quelli sono peggiori degli altri. Per qualche seggio in Parlamento, si sono staccati dalle masse.
HILDA: Qual è la tua arma segreta, Ernesto?
ERNESTO: Non dire cazzate, non ci sono armi segrete. C’è solo una soluzione: lo scontro frontale con gli Stati Uniti.
HILDA: Già. Però hai visto, in Guatemala? Il Presidente Ardenz s’è messo contro il Nordamerica ma poi ha dovuto cedere alle minacce della CIA.
ERNESTO: Ardenz è stato debole. Doveva armare una milizia popolare.
HILDA: E come la combatteva la potenza atomica degli Stati Uniti? Con i fucili da caccia?
ERNESTO: Dirmi questo è stupido da parte tua, Hilda! Io esprimo convinzioni, non faccio dell’estremismo infantile! Lo strapotere economico, politico e militare degli USA si potrà combattere solo quando i paesi latinoamericani saranno liberi e uniti! Il cambiamento, da noi, non passa per la via delle tiepide riforme. Sarà violento!
HILDA: Va bene ma calmati, Ernesto ! C’è gente di là e…
ERNESTO: Non mi calmo! Non voglio che nessuno mi calmi! Esco dai gangheri, se uno mi dice di calmarmi! Io… ti lascerò, se non lasci quel partito di merda! A volte ragioni come un agente imperialista!
HILDA: Tu ti esalti, Ernesto! Vedi spie della CIA dappertutto, anche nel tuo letto.
(Attratti dall’alterco, entrano gli altri).
RAUL: Scusate se mi intrometto, ragazzi, ma siete sposati solo da qualche ora. Non potete litigare così presto. È contro ogni prassi matrimoniale.
MARIA ANTONIA: La guerra dei sessi va bene, io me ne intendo, quel bestione di Dick, mio marito, è lottatore, ma rompersi il culo così fa male. Soprattutto alle donne incinte.
ERNESTO: Chi è incinta?
HILDA: Io. Forse.
ERNESTO: E non m’hai detto niente?
HILDA: Non ero sicura.
MARIA ANTONIA: È incinta, è incinta, la troiona, guardate, ha già la pancia, Pancia tonda, è in arrivo la bionda. (si rivolge ai due esiliati che prima ballavano tra loro) Via ragazzi, sveglia, è una festa di matrimonio, no? Suonate qualcosa, su con le palle! (uno dei due rifugiati canta “Mi corazòn”, l’altro lo accompagna con la chitarra).
ESILIATO: Toma, es solo un corazòn
Tenlo en tu mano y quando llega el dìa
Obre tu mano
Para que el sol lo caliente.
Ernesto e Hilda, rappacificati, ascoltano abbracciati. Entrano Fidel Castro e Canido Cienfuegos. La musica si ferma, tutti vanno ad abbracciarli.
HILDA: Ti ringrazio di essere venuto al nostro matrimonio, Fidel.
ERNESTO: Sono contento di vederti.
FIDEL: Anch’io Ernesto. Hai saputo del colpo di stato della marina argentina contro Peròn?
ERNESTO: Sì, l’ho saputo.
FIDEL: Cosa ne pensi?
ERNESTO: Ecco, io credo che Peròn sia solo un demagogo, e il suo giustizialismo è una forma aberrante di nazionalismo fascistoide. Secondo me al prossimo tentativo sarà deposto. Ma non so se la sua uscita di scena sarà un vantaggio.
FIDEL: Non lo sarà. Lo si voglia o no, Peròn è per l’America del Sud il paladino delle autonomie locali.
ERNESTO: Appunto. Caduto lui, il mio paese tornerà sotto gli yankees. Io ho girato in lungo e in largo l’America Latina e dovunque si sente la presenza economica degli Stati Uniti. E la CIA controlla tutti, se non facciamo qualcosa, diventeremo una grande colonia penale nordamerican. Da Cuba può partire la scintilla della rivolta.
FIDEL: Dobbiamo essere accorti. Batista, il dittatore, è ormai decotto. Gli Stati Uniti sono incerti se continuare ad appoggiarlo, nonostante i suoi eccessi, o se dare credito al nostro Movimento. Lo abbiamo chiamato “Ventisei luglio”, il giorno del nostro attacco alla Caserma della Moncada a Santiago. Le nostre idee cominciano a farsi strada tra la popolazione ma intanto a Cuba ci sono duecentomila capanne di argilla e di paglia, quattrocentomila famiglie vivono ammucchiate in tuguri, la mortalità infantile è altissima. E l’Avana è un bordello di lusso, ci sono perfino taverne dove i degenerati fanno l’amore con gli animali. Siamo al punto del non-ritorno, nel mio “Manifesto ai cubani” ho indicato quale sarà la strategia della nostra lotta.
ERNESTO: Raùl mi ha detto. La guerriglia.
FIDEL: Esattamente. La guerra di guerriglia sarà la nuova lotta di liberazione dei popoli. Saprai che presto sbarcheremo a Cuba. (pausa) Stiamo per cominciare gli addestramenti militari. Il punto di sbarco sarà sulla costa orientale, ma la guerriglia comincerà sulla Sierra Maestra, dove ci raggiungeranno quelli del Movimento rimasti a Cuba. Bisognerà essere in buona forma fisica per affrontare i disagi della montagna.
ERNESTO: In quanti sarete?
FIDEL: Un’ottantina.
ERNESTO: Io mi sono allenato sulle Ande, nel corso dei miei viaggi. La mia asma la tengo a bada, sono medico allergologo, come sai. (pausa) Se volete, sarò dei vostri.
FIDEL: Bene. Ho bisogno di gente coraggiosa e entusiasta. (lo guarda, sorride) E poi, hai la corporatura giusta. Ho comprato un piccolo battello, un 13 metri azionato da due motori diesel Gray General. Si chiama Grand Mother, ma io l’ho ribattezzato “Granma”. È nordamericano, mi sembra di buon auspicio. (risata clamorosa) Può portare venti persone compreso l’equipaggio, ce ne ficcheremo dentro ottanta. Magri, però. I grassi li lasciamo a Città del Messico. (ride di nuovo) Hilda! C’è della pasta, in casa?
HILDA: (sorpresa) Sì, Fidel.
FIDEL: Italiana?
HILDA: Italiana, certo.
FIDEL: Bene. Voi restate qui. Maria Antonia e voialtri, venite. In omaggio agli sposi, vi insegnerò come si cucina il mio piatto preferito: spaghetti alle vongole!
Escono tutti, tranne Hilda e Ernesto. Rientra Maria Antonia, improvvisamente.
MARIA ANTONIA: (sussurra) Io Fidel lo conosco bene. Ha due coglioni come due bisacce. Ma l’idea di sbarcare con uno yacht da crociera e pochi volontari a Cuba, dove li aspettano i 40.000 soldati di Batista, mi sembra proprio una gran puttanata.
(Esce di corsa, così com’è entrata).
HILDA: Allora hai deciso, parteciperai alla spedizione.
ERNESTO: Non preoccuparti per il bambino – sarà un Don Ernesto, naturalmente – prevedo tempi di preparazione molto lunghi, farò in tempo a vederlo.
HILDA: Quando te ne andrai proverò orgoglio e dolore nello stesso tempo. Però mi rimarrà difficile da capire perché la rivoluzione cubana abbia bisogno di un argentino.
ERNESTO: (irritato) Hilda! Non lasciarti guidare dall’egoismo! Dovresti essere in grado di capirlo, a meno che l’ambigua filosofia politica dell’APRA non t’abbia del tutto ottenebrata!
HILDA: Hai ragione, ma non ricominciamo con l’APRA, per carità!
ERNESTO: Vedi, Hilda, prima che venisse Fidel ho parlato a lungo con Raùl Castro: è un marxista molto preparato, siamo diventati buoni amici. È con lui che mi sono aperto alla verità. Io credo di avere trovato finalmente la mia strada. La spedizione cubana sarà un’azione vera, concreta, come lo è stato l’assalto dei Castro alla Moncada. Il mio futuro è legato a quello della Rivoluzione cubana, io vincerò o morirò con lei. Ci batteremo per far trionfare la prima trasformazione di una società latinoamericana in società comunista. E Fidel rappresenta l’uomo che saprà guidare il cambiamento.
HILDA: (velenosa) So che Fidel è il tuo idolo, gli hai perfino dedicato una poesia. Ma forse dimentichi che è anticomunista. Il suo Partido Ortodoxo è all’opposizione, a Cuba, ma è nazionalista e imbevuto delle idee romantiche di José Martì. E non può certo essere definito marxista. (teme di irritare ancora Ernesto. La butta in scherzo) Lo sai che a dodici anni Fidel scrisse a Roosevelt, congratulandosi per la sua terza Presidenza e chiedendogli un dollaro? E che a diciotto anni faceva la comparsa cinematografica a Hollywood?
ERNESTO: Ma chi te le ha raccontate queste barzellette? Fidel ha sempre odiato gli yankees, era ancora un ragazzo quando lottò con Raùl per impedire l’invio di truppe cubane nella sporca guerra americana in Corea! In quanto alla sua visione politica, è vero, non è ancora convinto che l’unico mezzo per abbattere l’imperialismo è il comunismo, ma si convincerà, si convincerà, puoi giurarci, Raùl se lo sta lavorando ai fianchi.
HILDA: Ma tu da quando sei diventato comunista? In Guatemala non lo eri. Ricordi? T’ho dato da leggere un sacco di libri per farti imparare la differenza tra il comunismo marxista e il tuo comunismo esistenziale alla Jean-Paul Sartre…
ERNESTO: Sbagli, Hilda. Quando ci siamo conosciuti ero già comunista. Era accaduto a La Paz, in Bolivia. Un giorno mi trovavo con un amico al Ministero dell’Agricoltura. Vicino a noi c’erano dei visitatori contadini. Prima di essere ricevuti dai funzionari, venivano disinfestati. Li spruzzavano col DDT! Quella scena mi ferì e m’indignò!
HILDA: Ma questo è solo un aneddoto!
ERNESTO: Forse. Ma è stato l’inizio di un percorso. Da quel momento ho smesso di sezionare i dogmi politici per abbracciare qualcosa che somiglia a una fede. (senza soluzione di continuità si mette a cantare, come ad evitare la dichiarazione “parlata” del suo credo. La musica ha ritmi acri e ripetitivi, è una sorta di tam-tam africano sposato ad un “reggae” jamaicano. La canzone è “San Carlos Marx”)
Lunga è stata la strada
facevo passi indietro
camminavo sul vetro
L’assalto alla Moncada
dei due fratelli Castro
fu l’ultima spallata
alla vita sbagliata
d’un giovanotto inquieto

Ad esser comunista
si arriva per due vie
e io le ho fatte mie
C’è quella più ottimista
si va per linea retta
viene la conoscenza
dai libri e l’esperienza
Poi c’è la porta stretta
dopo tutti gli inganni
dei gringos americani
viene l’indignazione
e cade ogni illusione
refrain
San Carlos Marx gli oppressi
non sono più gli stessi
Zio Sam, zio Sam, zio Sam
ti romperemo il culo
a ritmo di tam-tam

Dal Guatemala a Cuba
da Haiti al Nicaragua
dal Cile a San Domingo
dal Panama al Perù
dalla Bolivia a Honduras
la gente grida: mai più
repubbliche delle banane
sotto bandiere americane
refrain
San Carlos Marx gli oppressi
non sono più gli stessi
Zio Sam, zio Sam, zio Sam
ti romperemo il culo
a ritmo di tam-tam

 

Sesta giornata: 2 dicembre 1956. Cuba, spiaggia di Las Coloradas
6 – Lo sbarco

Alba. Nebbia, visibilità scarsa. Musica: potente, “Guantanamera”. I due Castro, Ernesto, Camilo, altri guerriglieri cubani si trovano nella struttura girevole che ora rappresenta la motobarca “Granma”. Solo Fidel Castro è in luce. I fari dei guardacoste frugano il mare e le spiagge in cerca dei rivoluzionari.

FIDEL: (nervosissimo) Allora ci siamo, Capitano?
CAPITANO: Credo… di sì, Comandante.
FIDEL: Come, credo? È o non è la costa cubana, quella?
CAPITANO: Sì, Comandante.
FIDEL: Sei sicuro che non ci troviamo in Giamaica o davanti a qualche fottutissimo isolotto?
CAPITANO: Sì, Comandante. Sono sicuro.
FIDEL: Allora metti i motori a tutta forza e punta dritto alla costa. Ragazzi! Presto saremo liberi! O martiri!
Musica: riprende, fortissimo, il motivo di “Guantanamera”. I guerriglieri sbarcano dalla struttura centrale che gira su se stessa mostrando un altro lato; nell’incerto chiarore si vedono le divise verde oliva dei guerriglieri.
FIDEL: Lì! Ripariamoci dietro quelle rovine!
(Scomparendo e ricomparendo dietro il corpo centrale gli invasori danno l’impressione di essere in gran numero. Alcuni di loro si accovacciano sul lato neutro della struttura).
ERNESTO: Stavamo per andare a picco, questo non è uno sbarco, somiglia di più a un naufragio.
I GUERRIGLIERO: Colpa di quella mierda di capitano, mai visto un marinaio così coglione!
II GUERRIGLIERO: Non c’è nessuno del Movimento ad aspettarci… La “Granma” è una barca yankee, l’avevo detto, io, che ci avrebbe portato male.
RAUL: Il nostro punto d’incontro non è qui, doveva essere più a Nord, vero Fidel?
FIDEL: Spremetevi il cervello prima di sparare stronzate. Vi siete dimenticati che il battello è stato costruito dodici anni fa per venti persone, mentre noi ne abbiamo imbarcate quattro volte tanto. Per forza che siamo andati più piano, dovevamo metterci cinque giorni, invece di sette. Abbiamo perso i collegamenti e il punto di sbarco non è questo. Appena possibile manderemo un messaggio ai ragazzi di Santiago. Quello che conta, comunque, è che siamo arrivati fin qui.
CAMILO: Fidel ha ragione, no? Cazzo, ragazzi, siamo a Cuba, no? Era quello che volevamo, no? E poi, che siamo a Cuba si sente dalle zanzare, no? Le zanzare di Cuba le conosco bene, io, cazzo, sono le zanzare di Batista, no? Sono le più assetate dell’America Latina! No?
Risate che sdrammatizzano la situazione.
FIDEL: Muoviamoci. Approfittiamo della nebbia. Dobbiamo raggiungere la Sierra Maestra.
Il gruppo si rimette in marcia. Esce. Crepitio di fucili. Rientra Ernesto. Ha una benda intorno al collo. Rivive epicamente l’accaduto.
ERNESTO: Durante quella terribile traversata avevo avuto un attacco d’asma. Ero indebolito, la marcia di tre giorni per arrivare ai piedi della Sierra Maestra mi aveva ridotto allo stremo delle forze. Ci trovavamo in una piantagione di canne da zucchero quando fummo attaccati dai governativi. Ci aveva traditi un contadino. Contro di noi si scatenò un uragano di proiettili… Fidel tenta inutilmente di riunire nel campo la colonna, ma c’è chi si arrende, chi scappa e chi cade. Accanto a me due disertori lasciano due casse, una di medicinali e l’altra di munizioni. Gli ordini di Fidel sono tassativi: mai lasciare le armi al nemico. Io… non ce la faccio a portarle tutte e due, devo lasciarne una, ma quale? Sono un medico ma sono anche un soldato. Lascio le medicine. Così appesantito, cerco di correre per raggiungere il campo di canne, arranco… una raffica mi becca, sento un colpo violento al petto e un bruciore al collo. Vicinissimo, un compagno perde sangue dalla bocca e grida: - M’hanno ammazzato! – Anch’io penso di morire. Decido di farlo nel modo migliore. Mi torna in mente un racconto di Jack London: in Alaska l’eroe della novella sta per morire congelato; si appoggia contro un albero e aspetta dignitosamente la morte. Anch’io faccio così. Una voce dietro di me urla: - Siamo fottuti, arrendiamoci! – Camilo Cienfuegos ribatte: - Testa di cazzo qui non s’arrende nessuno, no? – Mi vede un compagno, Juan Almeida, e mi dice: - Che stai a fare, lì, argentino di merda! – e mi trascina via nel campo di canne, in salvo.
Torna la musica di “Guantanamera”. Ernesto esce. Cambio di luci. Riunione di un gruppo di guerriglieri, tra cui Ernesto.
FIDEL: Quelli che hanno lasciato i fucili e le munizioni dovrebbero essere passati per le armi! Per nessun motivo al mondo si lasciano ai nemici i nostri mezzi di sopravvivenza, averli abbandonati è un delitto e un segno di stupidità. (a Ernesto) Ehi, Che! Come va la ferita?
ERNESTO: È quasi guarita, era solo un colpo di striscio.
FIDEL: Bene. Adesso che siamo riusciti finalmente a riunire la colonna di sbarco, facciamoci un po’ di conti. Tra dispersi, uccisi e catturati dal nemico, abbiamo perso una settantina di uomini. Però siamo qui, sulla Sierra Maestra. Alcuni compagni del Movimento ci hanno già raggiunti e i contadini sono dalla nostra parte. Ieri la Radio governativa ci ha dati per morti, tutti. Meglio così. Quanti fucili ci sono rimasti, Raùl?
RAUL: Cinque, Fidel…
ERNESTO: Io ne ho due. Fanno sette. Ora possiamo vincere la guerra.
Escono tutti. Le ultime note di “Guantanamera”.

Settima giornata: 25 ottobre 1958, venti mesi più tardi. Cuba, verso Las Villas, in pianura
7 – Siamo partiti a liberare il verde coccodrillo

Ernesto, solo, in angolo della boscaglia, legge. Entra una giovane guerrigliera. Ha pantaloni stretti. Porta un paiolo con del cibo. Nel posare a terra il paiolo, mette in mostra uno squarcio sul didietro

ERNESTO: Cristo, compagna. La prima cosa che vedo di te è il culo. Se il tuo viso è altrettanto bello, valeva la pena di sbarcare a Cuba, solo per questo.
(Aleida è timida; imbarazzata si tocca dietro. Mormora)
ALEIDA: Dev’essere successo quando sono scesa dal mulo (si mette meglio in luce. Sorride ma con discrezione) Comunque ho anche una faccia.
ERNESTO: Il tuo viso è più bello del tuo culo. Senza dubbio è anche più spirituale. Come ti chiami?
ALEIDA: Sono Aleida March, del Movimento 26 luglio. Ho fatto da collegamento con la colonna di Camilo Cienfuegos, da Las Villas. Ma ora non posso più tornare in città. La polizia mi ha scoperto. C’è una taglia sulla mia testa.
ERNESTO: Ah, sì. Ho sentito parlare di te. Camilo mi ha detto che sei molto coraggiosa. Ma siediti, cosa fai lì impalata?
ALEIDA: (felice, non sperava tanto) Posso… Comandante?
ERNESTO: So anche che ti hanno schedata con un soprannome, “teta manchada”… perché “teta manchada”?
ALEIDA: (al colmo dell’imbarazzo) Per via di una macchia, una voglia rosa che ho qui, sul seno destro… (prende coraggio, infantilmente) Ora che sei qui in pianura le cose andranno meglio per te. Come hai fatto a sopportare l’aria della Sierra con la tua… asma?
ERNESTO: Ci sono abituato, all’asma, è la mia seconda pelle. Sono anche stato ferito, ma io sono come un gatto. Ho perso due vite, me ne restano cinque.
ALEIDA: Ti serviranno tutte. Stando a quello che so, presto sferreremo l’attacco finale. E tu ci servi vivo, per liberare Cuba. Tu sei il nostro “Libertador”.
ERNESTO: Chi ti ha detto queste sciocchezze?
ALEIDA: Lo dicono tutti.
ERNESTO: Non sono un “libertador”, non esistono i liberatori, sono i popoli che si liberano da soli. Ma dimmi di te. Come sei entrata nella lotta?
ALEIDA: Sono entrata nel Movimento quando ho sentito parlare di te… Mi sono detta: se un argentino lotta per il mio paese voglio combattere anche io. È stato un marinaio italiano che mi ha parlato di te per la prima volta. Un certo Gino Donne.
ERNESTO: Gino Donne! Ma io l’ho conosciuto! Era imbarcato con noi sul “Granma” ma poi fu dichiarato disperso a Alegria de Pio. Che fine ha fatto?
ALEIDA: Era riuscito a raggiungere Santa Clara, sporco, lacero, e ferito. L’ho incontrato a casa di una mia amica. Con lei faceva azioni di sabotaggio contro l’esercito di Batista. Ma poi si stancò. E il giorno del suo primo Natale a Santa Clara fu deluso dall’atmosfera di festa. Ci disse che mancavamo di spirito rivoluzionario. Riuscì a trovare una nave che partiva da Cuba e a lasciare il paese. Era un tipo strano. Un anarchico individualista.
ERNESTO: Tu… sei nazionalista, come quelli del Movimento?
ALEIDA: Io… non amo parlare di me.
ERNESTO: Sei timida?
ALEIDA: Solo nei momenti importanti.
ERNESTO: E questo lo è?
ALEIDA: Sì. Ho conosciuto il “Che”, il Comandante, l’uomo più popolare della rivoluzione.
ERNESTO: Che altro sai di me?
ALEIDA: M;i hanno detto che tratti le donne come uomini, e gli uomini come donne, e questo è formidabile. Vuol dire che tratti gli uomini con dolcezza, senza cattiveria, e che consideri le donne pari agli uomini. Non sei di certo come quei soldati scemi che, almeno i primi tempi, siccome donna, mi mettevano i topi nella branda per farmi spaventare… Io… posso rimanere qui al campo, Comandante?
ERNESTO: (riprende in mano il suo libro) Non posso rimandarti in città, ti beccherebbero. Ti darò qualche incarico qui. Vedremo. Ci conosceremo meglio. Non è escluso che faccia di te la mia aiutante di campo. Ti piacerebbe?
(Aleida salta in piedi, felice)
ALEIDA: Immensamente!... (ride) E poi quando avremo vinto andremo in città, ti metterò in una gabbia con un cartello con su scritto “Il Che Libertador”. Ti porterò in giro per tutta l’isola, la gente pagherà il biglietto per vederti, così diventeremo ricchi… (si riprende) Scusami, ho detto un sacco di sciocchezze…
(Scappa via. Ernesto sorride. Riprende la sua lettura. Una luce isola ora Aleida).
ALEIDA: Quella sera Juan Almeida portò al campo il contadino che aveva tradito la colonna, Eutimio Guerra. Fidel aveva dato l’ordine di giustiziarlo. Si scatenò un tremendo temporale e si fece completamente buio. La situazione era difficile per i compagni, Eutimio era un traditore, ma era cubano. Il “Che” mise fine al problema: tra uno squarcio di luce e un altro della tempesta, gli puntò una pistola calibro 32 sul lato destro del cervello e fece fuoco. Il proiettile gli uscì dalla tempia sinistra. Sussultò qualche istante e poi morì. Guardai in faccia Ernesto, non sembrava né un boia né un soldato, ma solo quello che era. Un medico umano e pietoso.
Aleida e tutti i guerriglieri sono intorno a Ernesto che canta “La canzone della Sierra Maestra”, le parole sono adattate dalla poesia che Ernesto ha dedicato a Fidel.
ERNESTO: Siamo partiti
nella luce rosata dell’aurora
per sentieri mai percorsi finora
a liberare il verde coccodrillo
ALEIDA: Un colpo di fucile
risveglia la boscaglia
la macchia è stuprata
lrepita la mitraglia
ERNESTO: Siamo partiti
e se il ferro nemico si fa strada
vuol dire che la morte è destinata
Il sudario è di lacrime cubane
ALEIDA: Un colpo di fucile
risveglia la boscaglia
la macchia è stuprata
crepita la mitraglia
ERNESTO: Siamo partiti
saremo nelle piazze incandescenti
quando si spargeranno ai quattro venti
voci di pane lavoro e libertà
CORO: Un colpo di fucile
risveglia la boscaglia
la macchia è stuprata
crepita la mitraglia
TUTTI: Cacciamo via il tiranno
tra un mese un giorno un anno
torna la verità.

SECONDA PARTE

Varie giornate dal 1959 al 1964; l’Avana, Cuba
8 – Battaglia di dame

Sotto due coni di luce sono in scena Aleida e Hilda, le due moglie di Che Guevara; parlano senza comunicare tra loro, lungo due ideali linee parallele. Alla fine, forzando un po’ la geometria, le due parallele convergono e le due donne si guardano con evidente animosità.

ALEIDA: Quando entrammo vittoriosi a Santa Clara Che Guevara era già un mito. Ricordo che arrivammo con la jeep. Il nostro ingresso diventò leggenda. Dissero che il Che aveva portato con se dalla Sierra Maestra le sue tre mogli, la bionda, la nera e la mulatta. In realtà la nera il sedicenne Harry Villegas e la mulatta era il giovane José Parrita. I due ragazzi portavano i capelli lunghi e il popolo li aveva presi per donne. La bionda ero io: ma non ero ancora la moglie del Che.
HILDA: La Rivoluzione cubana era appena finita con il trionfo di Fidel Castro quando arrivai all’Avana con mia figlia, la piccola Hildita. Già: era nata una femmina, non era un Don Ernesto. Mio marito non era all’aeroporto, lo vidi subito dopo, in albergo.
(Compare, evocato, Ernesto).
ERNESTO: Hilda: devo essere franco con te. Ho un’altra donna. L’ho conosciuta sulla Sierra Maestra. Intendo stare con lei.
HILDA: Capisco. L’ho sospettato. In questi anni mi hai scritto solo per chiedermi notizie di Hildita. Non ci resta da fare altro che divorziare.
ERNESTO: Penso proprio di sì. Mi dispiace, Hilda.
HILDA: Per me è un grande dolore.
ERNESTO: Forse… sarebbe stato meglio se fossi morto in combattimento.
HILDA: Non dire sciocchezze. Tu, Fidel, Camilo e gli altri avete fatto qualcosa di incredibile. Ora dovete costruire una nuova società, senza ripetere gli errori commessi in Guatemala.
ERNESTO: Tu sei stata una compagna ideale, Hilda. Quando ci hanno arrestati, prima in Guatemala e poi in Messico, la tua condotta rivoluzionaria è stata perfetta.
HILDA: Vuoi darmi una medaglia, ora che sei un pezzo grosso?
ERNESTO: Capisco questo tuo sarcasmo, ma io volevo solo ringraziarti per…
HILDA: Ero tua moglie e ti amavo. Lo sono ancora e non ho cessato di amarti. Cosa vuoi fare di me?
ERNESTO: Naturalmente resterai all’Avana con Hildita. Ti troverò un posto adeguato, è ovvio. Io non guadagno molto, circa 400 pesos, te ne passerò un centinaio per la piccola. (pausa) Sono felice tu che sia qui, Hilda. Allora, è deciso. Rimaniamo amici e compagni?
HILDA: (tra le lacrime) Sì. Amici e compagni…
Ernesto scompare. Hilda canta “La ex-compagna”
Sono una ex-compagna
la storia è già finita
Stai tranquillo Ernestito
non me la lego al dito
È stata la montagna
la guerra di guerriglia
C’è di mezzo una figlia
va bene non importa
il tempo è un magistrato
che non sbaglia mai.
Due moglie ha Che Guevara
La sua franchezza è rara
Io me ne sto in disparte
Senza farmi notare
Però io so aspettare
Quando ti ho conosciuto
t’ho fatto un po’ da balia
t’ho salvato da te
dall’autodistruzione
Dicevi che t’ammalia
il mio profumo forte
ma la rivoluzione
cambia la società
e cambia pure l’uomo
e tu sei l’uomo nuovo
Due moglie ha Che Guevara
la sua franchezza è rara
sono un ex-compagna
non gli sto alle calcagna
posso solo aspettare.
ALEIDA:In maggio il Che ebbe il divorzio. Il due giugno eravamo già bell’e sposati.
HILDA: Lavoravo in un ufficio dove si assegnavano case ai contadini che le avevano perse in guerra. Eravamo nel Palazzo dell’Istituto per la Riforma Agraria. Il Presidente, che era Fidel Castro, aveva sede al 14° piano. Ernesto, come Direttore del Dipartimento della Industrializzazione, stava all’8° piano. Io ero al 4°. In qualche modo, la Rivoluzione ci aveva riuniti.
ALEIDA: La presenza in scena della irriducibile Hilda mi dava molto fastidio. Secondo me la peruviana non aveva per niente rinunciato all’idea di riconquistare il Che.
HILDA: Ernesto era molto affezionato a me e a Hildita. Gliela portavo nel suo ufficio e lui restava ore a giocare con lei…
ALEIDA: Ogni tanto la peruviana ci lasciava la bambina nei week-end e io abbozzavo. Ma l’idea che gliela portasse in ufficio mi faceva diventare matta. Ernesto lavorava come un mulo fino a mezzanotte. Ogni volta che perdeva due ore con la figlia della peruviana, mi tornava a casa alle due…
HILDA: Io avevo preso l’abitudine di parlare con la segretaria di Ernesto. Mi sfogavo con lei, ero amareggiata dalla totale insensibilità di Aleida. Ma forse era solo una questione culturale, la cubana era figlia di contadini… O… era troppo giovane per capire Ernesto.
ALEIDA: Il Che non ne poteva più delle visite quotidiane della peruviana. Un giorno la segretaria, con la quale ero in confidenza, lo sentì che urlava: - Insomma, Hilda! Se è così, tanto valeva non divorziare! –
HILDA: Finì che la segretaria, stanca di stare tra due fuochi, chiese e ottenne di essere trasferita.
ALEIDA: Quattro figli gli ho dato.
HILDA: Aleida era come una tartaruga marina, sparava figli a raffica.
ALEIDA: Quattro figli in cinque anni: Aleida, Camilo, Celia, Ernesto. E dire che il Che era spesso all’estero per fare propaganda al socialismo di Cuba… Io non ci andavo con lui, non voleva. Non se la sentiva di incidere sul Bilancio dello Stato. Comunque, con l’ultimo bebè, Ernestito, la produzione si ferma. Faccio lo sciopero aziendale.
HILDA: Da quando è stato fatto Ministro dell’Industria, Ernesto non lavora più nel Palazzo dell’Istituto per la Riforma Agraria. I rapporti tra noi sono diventati più formali. Però viene spesso a trovare Hildita.
ALEIDA: La peruviana è diventata un pericolo pubblico. Quella sua mania di fare la madrina ai guerriglieri latinoamericani che vengono a Cuba a vedere l’uomo nuovo ha creato un sacco di grattacapi ai servizi segreti cubani. Eh già… spesso si fanno passare per rivoluzionari spie, marchettari, imbroglioni, perdigiorno europei…
HILDA: Ernesto, ormai, si confida raramente con me. Non capisco perché. Ho saputo da altri che è sua intenzione riprendere la guerriglia in Argentina. O in Africa. Forse è una mia impressione, ma sento che qualcosa si sta rompendo, tra noi. Provo una grande pena. (esce).
ALEIDA: Da qualche tempo Ernesto è molto inquieto. (come evocato entra Ernesto, torvo) Andiamo, Ernesto, smettila di tormentarti.
ERNESTO: Non dovrei, secondo te?
ALEIDA: No! Ricardo Masetti era tuo amico, lo so, ma se è finita come è finita, tu che c’entri?
ERNESTO: Non è così. Dovevo andarci io, in Argentina, e prendere in mano le redini della guerriglia!
ALEIDA: Ma come potevi? Eri in Europa, eri tu l’ambasciatore della nostra rivoluzione!
ERNESTO: Avrei dovuto lasciare gli onori, Aleida. E correre in Argentina a dare una mano ai compagni che avevano iniziato una rivoluzione che io avevo ispirato! Non l’ho fatto. E Masetti e gli altri sono stati massacrati dall’esercito.
ALEIDA: E allora? Dovevi farti massacrare insieme a loro? Sarebbe stato un sacrificio inutile. (pausa) Così come mi sembra inutile andare nel Congo a soccorrere i seguaci di Lumumba.
ERNESTO: Chi ti ha detto dell’Africa?
ALEIDA: Che t’importa. È vero allora?
ERNESTO: È vero.
ALEIDA: Ma perché, Ernesto? Giuro che non le capisco, le tue motivazioni! Hai quattro figli, per non parlare della figlia della peruviana. Che ci vai a fare in Africa? È un paese che non conosci, perché vai a mischiarti in conflitti tribali che non ti riguardano? Ho letto in qualche parte che i guerriglieri credono di avere qualcosa… mi pare che lo chiamino il… “dawa”… che poi sarebbe una medicina, una pomata, che li rende invulnerabili contro i proiettili e le bombe… Tu che vai a fare in mezzo a loro? Rischi di sembrare l’uomo bianco che va a aiutare i boveri negri… una specie di Tarzan, insomma. Solo che tu, con i tuoi polmoni stanchi, sei un Tarzan asmatico…
ERNESTO: (sorride) Hai sempre un tuo modo personale di vedere le cose. Ma non ti preoccupare: ero asmatico anche nella Sierra Maestra. Vedrai, Aleida. Una volta avviata la rivoluzione in Africa, ti chiamerò… (si allontana) Vedrai: ti chiamerò… ti chiamerò… (scompare lentamente. Entra un gruppo di donne. C’è anche Hilda. Cantano “Donna condor”, ispirata ai versi di Neruda)
CORO: Siamo condor, voliamo
sul ricco che cammina
poi di colpo scendiamo
in un giro di vento
e di penne e di artigli
il cuore gli strappiamo
per darlo ai nostri figli.
ALEIDA: Yo soy el còndor
penso a mi chico
y vuelo sobre el rico.
CORO: Donne condor, saltiamo
sulla preda che viene
la vita gli straziamo
bevendogli le vene
come noce di cocco
Dove cresce la palma
è lì che siamo nate
ALEIDA: Yo soy el còndor ecc.
INSIEME: Dove cresce la palma
è lì che siamo nate
gioia e tristezza insieme
al mondo abbiamo dato.
ALEIDA: Può anche darsi che tu muoia, uomo
straziato dal rostro d’una donna
ma non macchiare la tua vita, uomo,
dicendo male della donna.

Nona giornata: 11 dicembre 1964; New York, Palazzo ONU
9 – Nel ventre della balena

Il girevole mostra ora il lato “ufficiale”, con due colonne e un architrave. Il Che, tirato a lucido nella sua uniforme verde-oliva, incontra il giovane diplomatico Richard Goodwin; i due duettano su un motivo elementare, una specie di rap; è il “Duetto dell’Onu”.

ERNESTO: (canta) Che bello rivederla, Ambasciatore!
Ricorda? In Uruguay, tre anni fa.
GOODWIN: (canta) Come non ricordarla? Lei è schivo
non capita di certo tutti i giorni
d’avere un collega verde-olivo.
ERNESTO: Non mi dipinga al Presidente Johnson
come un ingenuo. So che ci vorrà
più d’un secolo, forse due
per raggiungere il livello degli States.
Sa che la Coca Cola fatta a Cuba
ha un gusto di sciroppo per la tosse?
E certo è buono, il nostro dentifricio
però si secca fuori del tubetto.
La qualità è importante. Il sacrificio
è stato un grave errore. Non è detto
che il bello non si addica al socialismo
e alla prassi rivoluzionaria.
GOODWIN: Avete preferito coltivare
Lo stato sociale e la difesa.
Ma in quanto alla ricerca sanitaria
avete avuto un buon successo ovunque
con il vaccino contro l’epatite.
ERNESTO: Esagerate un po’. Ovunque, dite?
Solo in Brasile, egregio Ambasciatore.
Ma poi le vostre multinazionali
hanno bloccato vendite e profitti.
GOODWIN: Non dipendono certo dallo Stato.
La nostra economia è liberista.
ERNESTO: Balle!
GOODWIN: Prego?
ERNESTO: Dicevo, il liberismo
è una volpe nel chiuso d’un pollaio.
Non mi dia retta. Sono un parolaio.
Veniamo a noi. Si dice: il pragmatismo
è peculiare all’uomo americano.
GOODWIN: È vero. Ma l’essere pragmatico
è in contrasto con la diplomazia.
ERNESTO: Siccome non sono un diplomatico
posso essere franco, Ambasciatore.
Siamo a quattr’occhi. E sia quello che sia.
Sono a New York perché stasera, all’ONU,
interverrò contro gli Stati Uniti,
contro l’embargo, contro le sanzioni.
GOODWIN: Lo so.
ERNESTO: Lo sa?
GOODWIN: Sappiamo, siete ostili.
ERNESTO: Noi siamo ostili. Voi ci fate guerra.
GOODWIN: Fu un errore di Kennedy, lo ammetto.
Nella Baia dei Porci l’aviazione
scrisse una nera storia americana.
ERNESTO: Fu un attentato alla libertà.
GOODWIN: Gli Stati Uniti, creda, hanno un concetto
assai diverso della libertà.
S’accorda male con l’idea cubana.
Troppo vicina a Cuba è la Florida
l’ameno Stato della nostra Unione.
ERNESTO: Ma questa è geografia, Mister Goodwin!
Parliamo di politica, le spiace?
GOODWIN: E sia. Cuba dipende integralmente
dall’Unione Sovietica e la pace
è spesso a rischio. C’è la guerra fredda.
ERNESTO: E questo è parlar chiaro. Io le chiedo:
Lo prendereste, il posto della Russia?
GOODWIN: Lei corre, caro Che. Sono sorpreso.
ERNESTO: Sono i tempi che corrono. D’altronde
non piaccio in USA e tanto meno in URSS.
GOODWIN: Già Lei, come si sa, è filo-cinese.
ERNESTO: Posso proporre a Castro un sostanziale
mutamento di rotta. Beninteso
nel caso si raggiunga un qualche accordo.
GOODWIN: Su quali basi?
ERNESTO: Parziale indennizzo
dei capitali e delle società
– zuccherifici, United Fruit, Texano –
che s’è dovuto nazionalizzare.
GOODWIN: Può far questo uno Stato imperialista?
ERNESTO: L’orso di Mosca è molto più esigente
del rapace avvoltoio americano.
Capisco l’ironia ma non è il caso
d’andar per il sottile. Come trova
la mia proposta, caro Ambasciatore?
GOODWIN: Interessante. Parlerà con Castro?
ERNESTO: Sicuramente. E lei col Presidente?
GOODWIN: Siamo d’accordo. Se si viene a un patto
prepari per stasera un intervento
che introduca al reciproco riscatto.
ERNESTO: (esaltato) Sarebbe il primo passo per l’evento
di portata politica mondiale!
E se Cuba è vicina alla Florida
cessa ogni rischio di belligeranza:
noi restiamo nell’are occidentale,
non servono più armi. Né la CIA.
GOODWIN: Così torniamo alla geografia.
Si sorridono; hanno la stessa età; amano un po’ giocare un po’ sognare.
Il duetto è finito. Il Che estrae dalla tasca un fazzoletto rosso e lo strappa in due: ne consegna la metà a Goodwin.
ERNESTO: (parlato) Se Fidel Castro e Lyndon Johnson accetteranno di trattare, stasera ci metteremo al taschino questi fazzoletti rossi, in segno di vittoria della nostra missione. È d’accordo, Mister Goodwin?
GOODWIN: (sorride) Un fazzoletto rosso, eh, Che Guevara?
ERNESTO: Non avrà paura d’un colore, spero.
GOODWIN: Vada per il fazzoletto rosso. (sorride) Non credo che basti, per incastrare gli Stati Uniti…
Ernesto, rimasto solo, canta la canzone “Canzone verde oliva”.
ERNESTO: Che ci faccio?
Mi sento alla deriva
sono soltanto un pagliaccio
cazzone verde oliva
Lyndon Johnson
e Fidel, contendenti,
alla fine hanno detto no.
Di corsa agli armamenti
presto!
È così che muore la grande speranza
d’una breve tregua nel Sudamerica
Un giorno vedrete ci sarà mattanza
da un capo all’altro della terra. Africa
e la Cina di Mao. Tutto il Terzo Mondo.
Io che ci faccio? Mi sento alla deriva
cazzon(e) verde oliva
Questa politica
ormai m’affatica
forse è meglio una raffica
per mette fine a tutto
Che ci faccio?
sono qui alla deriva
mi sento come un pagliaccio
cazzone verde oliva
Vai cazzone!
Goodwin e Ernesto rientrano, si guardano; non hanno i fazzoletti rossi. Guevara va al microfono. Discorso all’Onu.
ERNESTO: Stimati rappresentanti dell’Onu. Sono qui per denunciare l’ingerenza del Governo degli Stati Uniti nei paesi latinoamericani. Un’ingerenza che in questi ultimi tempi si è fatta insostenibile! È tale il cinismo di questo Governo che mercenari senza patria addestrano alla luce del sole, in diversi luoghi dei Carabi, militari allo sbando e peones senza bussola, allo scopo di preparare una aggressione contro il nostro paese! Noi cubani vogliamo la pace, vogliamo costruire una vita migliore per il nostro popolo, ed è per questo che non ci curiamo di queste provocazioni e gridiamo: Abbasso l’imperialismo yankee! (pausa) So che qualche collega sudamericano storce il naso quando io dico “noi cubani”, perché il mio accento argentino denuncerebbe la mia estraneità a Cuba. A questi criticoni scettici, e anche un po’ stupidi, dico che io sono cubano e sono anche argentino, ma ancora di più mi sento patriota dell’America Latina! Se fosse necessario, sono disposto a dare la vita per la liberazione di questo o quel paese latinoamericano, senza chiedere niente a nessuno e senza pretendere niente da nessuno!
Alla fine del suo discorso Ernesto esce mentre scoppiano le note di un allegro ballabile nordamericano. Entrano in scena diverse coppie che ballano; l’unico a non ballare è un giovanotto che attende, con in mano un taccuino. È un giornalista. Entra Ernesto Che Guevara, sempre in divisa. C’è sensazione tra le coppie, che tuttavia non cessano di ballare.
GIORNALISTA: (va incontro al Che) La ringrazio di avermi concesso questa esclusiva, Mister Guevara.
ERNESTO: Mi chieda quello che vuole, ma scriva solo quello che le dirò.
GIORNALISTA: È vero che lei, nei week-end, va a stivar banane sui moli e a tagliare canne da zucchero nei campi?
ERNESTO: Verissimo. E non mi guardi con quell’aria dubbiosa. Ci sono cose, in terra, più mirabili che in cielo.
GIORNALISTA: Cos’è, una parafrasi di Shakespeare?
ERNESTO: Bella cultura, giovanotto.
GIORNALISTA: A Cuba è consentito leggere Shakespeare?
ERNESTO: Lo si studia a scuola. Dubito che facciate la stessa cosa nel vostro Bronx, visto che non ci sono scuole. Né librerie, a quanto mi dicono.
GIORNALISTA: L’hanno informata male. Quando farete libere elezioni a Cuba?
ERNESTO: Quando il popolo le chiederà in una libera assemblea.
GIORNALISTA: È vero che avete nazionalizzato le scuole cattoliche?
ERNESTO: Adesso sono semplicemente scuole.
GIORNALISTA: Si dice che abbiate razionato la carne: 700 grammi alla settimana, davvero poco. E il popolo cubano è su tutte le furie.
ERNESTO: Chi ha detto che un buon giornalista deve anche essere un buon romanziere, mentre un buon romanziere non è necessariamente un buon giornalista?
GIORNALISTA: Vuol dire che sto romanzando la vostra realtà? E qual è allora la verità?
ERNESTO: La verità è semplice, per questo è rivoluzionaria. A causa dell’assurdo embargo posto dagli Stati Uniti abbiamo dovuto razionare ogni genere di grassi, la carne e le calzature. Ma la storia dei 700 grammi è una favola. Il consumo di carne pro-capite è da noi infinitamente superiore a quello di molti altri paesi latinoamericani, e in ogni caso è sufficiente. Negli Stati Uniti solo chi ha i soldi compra la carne. Non è così?
GIORNALISTA: Noi abbiamo il welfare per i non abbienti. È vero che fate retate di omosessuali?
ERNESTO: Noi puniamo i ladri e gli assassini. Può capitare che un omosessuale sia ladro o assassino.
GIORNALISTA: Cosa fate ai trotzkisti, li imprigionate o li espellete?
ERNESTO: Invocare la rivoluzione permanente dove c’è già al potere un governo rivoluzionario è sovversione.
GIORNALISTA: Lei è comunista, Mister Guevara?
ERNESTO: Non sono iscritto al Partito Comunista Cubano né a nessun partito comunista latinoamericano, se è questo quello che vuole sapere. Ma se chi s’indigna quando in un qualsiasi angolo del mondo viene ucciso un uomo è comunista, ebbene, sì, sono comunista.
GIORNALISTA: Le piace New York?
ERNESTO: Sarebbe più bella senza giornalisti.
GIORNALISTA: Le piacciono le donne?
ERNESTO: Non sarei uomo se non mi piacessero.
GIORNALISTA: Quante ore lavora al giorno?
ERNESTO: Sedici. Per riposarmi gioco a scacchi.
GIORNALISTA: Ma allora quante ore dorme, effettivamente?
ERNESTO: Quattro, quando ci riesco.
GIORNALISTA: Mister Guevara: lei dorme poco, non beve alcool, non balla, non ama il mare, per riposare gioca a scacchi o legge libri di matematica… Non è uno strano cubano?
ERNESTO: Non sono cubano come un altro cubano. Sono cubano in quanto Ernesto Che Guevara.
GIORNALISTA: Cosa vuol dire “Che”?
ERNESTO: È un termine argentino d’origine “guarany” che vuol dire “mio”: nel mio paese lo usiamo come interiezione, per dire “tu”. E siccome ne abusavo, sono stato soprannominato “El Che”.
GIORNALISTA: Lei, quand’era Presidente del Banco Nacional di Cuba, firmava i biglietti di banca come “El Che”. Perché?
ERNESTO: Perché no?
GIORNALISTA: Cosa direbbe a un giovane americano?
ERNESTO: Gli direi di non smettere mai di essere giovane.
GIORNALISTA: Voi, a Cuba, pensate davvero che un giorno il Sudamerica sarà unito?
ERNESTO: Chiediamo l’impossibile: siamo realisti.
GIORNALISTA: Lei sa dove si trova, ora?
ERNESTO: In casa di Bobo Rockfeller.
GIORNALISTA: “Nel ventre della Balena”, come ha scritto José Martì.
ERNESTO: Mi hanno detto che Bobo è di sinistra. Che è un vero “liberal”.
GIORNALISTA: In effetti, la signora Bobo Rockfeller è una “liberal”. Eccola, sta arrivando.
(Bobo Rockfeller va verso il Che. È affascinante, mondana, elegante).
BOBO: Adesso basta con la politica, Mister Guevara. Sente? Questa rumba è in suo onore. Balliamo? (indica il cantante che sta intonando la rumba)
ERNESTO: Al mio paese sono gli uomini che chiedono di ballare alle donne.
BOBO: Mai sentito parlare di matriarcato americano? La prego.
(Ballano la “Rumba cubana”).
CANTANTE: (canta, naturalmente) Nell’isola di Cuba
e bionde vanno a ruba
ma sulla sabbia bianca
la mora mai si stanca
di fare all’amor…
Rumba rumba macuba
questo è il ritmo cubano
è un dolce talismano
che fa più dolce il cuor…
Ernesto si interrompe.
ERNESTO: La prego, lo faccia smettere! Questa canzone è una stupida mistificazione turistica del tempo di Batista!
Bobo interrompe il cantante con un gesto. Le danze si fermano. Bobo guarda Ernesto con malizia.
BOBO: Preferisce l’Internazionale? O “La Cucaracha”?
ERNESTO: Sono più aggiornato di quanto lei pensi, maèdam... Conosce una canzone di Johnny Mathis, “Wild is the wind” per esempio? (Bobo annuisce, Ernesto va al microfono; canta) Wild is the wind, ecc.

Decima giornata: 16 marzo 1965; l’Avana, Cuba
10 – Lo scontro

Fidel e Ernesto, entrambi in divisa; Fidel è nervoso; Ernesto giocherella con il coltellino di Fidel.

ERNESTO: Carino questo coltellino. Da dove viene?
FIDEL: Cosa…? Ah, il coltellino. È un regalo. Viene dalla Svizzera. (se lo riprende)
ERNESTO: Fa proprio tutto. Taglia, lima, sforbicia, apre le scatole e le bottiglie, ci manca solo che mandi missili... (lo riprende) Chissà perché noi non siamo capaci di fabbricare oggettini come questo.
FIDEL: Renditi conto, Ernesto. Ci hai fatti stare in ansia. Dopo il tuo intervento all’ONU sei scomparso per tre mesi.
ERNESTO: Ho viaggiato molto. In una grande quantità di paesi africani la situazione è esplosiva...
FIDEL: D’accordo, ma la tua missione finiva a New York...
ERNESTO: È vero, ma dopo il tuo rifiuto di trattare con gli Stati Uniti volevo verificare...
FIDEL: Non sono stato io a non volerlo, quell’accordo! Johnson ha detto di temere la rappresaglia sovietica per la perdita di Cuba! Hanno voluto evitare un conflitto mondiale… Almeno questa è la tesi ufficiale.
ERNESTO: Già. Quella vera non la conoscerò mai.
FIDEL: Il tuo è stato un comportamento irresponsabile!
ERNESTO: Ti dicevo che ho viaggiato molto. Algeria, Mali, Ghana, Tanzania e poi di nuovo Algeria… Sono ancora l’ambasciatore della nostra rivoluzione o no?
FIDEL: Ma andiamo, non è quello. La tua scomparsa ha scatenato i nostri nemici! C’è chi giura che sei stato vittima di un’epurazione qui a Cuba, chi è pronto a scommettere che sei molto malato, chi ti vuole in Messico rinchiuso nel manicomio di Cuernavaca, chi ti dà morto a Santo Domingo e chi dà per certo che hai ripreso la guerriglia in Argentina al fianco di quella bella guerrigliera tedesco-argentina, Tania Binder Bunker…
ERNESTO: (ride) Meno male, ci mancava, una versione romantica...
FIDEL: C’è poco da ridere, all’estero bevono tutto. Il nostro governo è dipinto con i colori più cupi, scrivono che qui gli uomini scompaiono nel nulla… Lo sai che in tutto il Sudamerica ci sono manifesti con la foto di tuo padre che mi chiede di restituirgli almeno il tuo cadavere?
ERNESTO: Stai tranquillo. Ho telefonato ai miei vecchi, sanno tutto. Comunque, è solo propaganda… (pausa) Ricordi in Messico, Fide? Qualche giorno prima di imbarcarci per Cuba vennero da noi degli amici e ci chiesero chi dovevano avvertire in caso di morte. La domanda ci colpì, non sapevamo cosa rispondere perché non avevamo mai pensato a quella eventualità. Ora penso spesso alla morte, ma senza angoscia. Sarà un’inevitabile seccatura, che però mi impedirà di portare a termine il mio lavoro.
FIDEL: Andiamo, Che! Lo finiremo insieme quel lavoro. Insieme abbiamo vinto.
ERNESTO: No, Fidel. Abbiamo vinto perché c’è stato un solo capo. Sulle prime ti ho sottovalutato, pensavo che tu fossi solo il leader della borghesia di sinistra. Ma poi ha rivelato diti di grande statista. E ora so che il ruolo, qui, è fondamentale. Cuba è l’avamposto. È l’avanguardia della lotta che vedrà uniti i popoli afroasiatici e latiamericani contro l’imperialismo, ultima tappa del capitalismo.
FIDEL: Ho letto il tuo articolo sulla Guerriglia Tricontinentale. È un’ipotesi indubbiamente affascinante.
ERNESTO: Ipotesi, Fidel? Il motivo dei miei viaggi africani è stato proprio quello di rinsaldare i legami tra i popoli in vista...
FIDEL: In vista...?
ERNESTO: Dello scontro finale. Ti sento scettico. Una volta ci credevi.
FIDEL: Tu ci credi? (ora è Fidel che giocherella con il coltellino)
ERNESTO: So quello che pensi. Ho cercato di trattare con gli americani, è vero. Volevo che uscissimo dall’accerchiamento in cui ci troviamo per via della nostra alleanza a senso unico.
FIDEL: Ma poi è andata come è andata. E all’ONU tutti i paesi dell’America Latina, tranne l’Argentina che si è astenuta, hanno votato contro la tua mozione di condanna degli Stati Uniti…
ERNESTO: Non hanno voluto schierarsi con l’Unione Sovietica.
FIDEL: Non hanno voluto schierarsi contro gli Stati Uniti. E tu pensi, ora, alla Tricontinentale? Siamo dalle parti dell’utopia, Ernesto.
ERNESTO: Anche la nostra vittoria a Cuba sembrava un’utopia. Io sento che bisogna riprendere la lotta. Per questo lascio Cuba.
FIDEL: Lasci Cuba? Ma questo è il tuo paese. Qui c’è il tuo lavoro. C’è tua moglie. Ci sono i tuoi figli.
ERNESTO: Ho deciso di rinunciare ai miei incarichi di partito, e alla mia condizione di cittadino cubano. Vado via, non ho impedimenti legali che mi trattengano qui. Ho vincoli di altra natura, che non si sciolgono né con le dimissioni né con la partenza.
FIDEL: Se hai proprio deciso so che non ti potrò fermare.
ERNESTO: Appunto. Ho proprio deciso.
FIDEL: Senti, Che, le tue convinzioni sono sempre state anche le mie. Anch’io ho sempre pensato che lo scontro deve essere portato su scala internazionale. Ma al momento non esistono né gli strumenti né le condizioni per realizzarlo.
ERNESTO: Non sono in condizione di aspettare.
FIDEL: Ma perché? Sei impaziente! Sei sempre stato impaziente!
ERNESTO: Quando eravamo in Messico lo eri anche tu. Tutti ti avevano consigliato di ritardare lo sbarco a Cuba, ma tu non volesti aspettare, non sentisti ragioni.
FIDEL: Ma era un altro momento! La storia non è un ciclostilato stampato in tante copie! La tua impazienza… è solo deleteria! Per te, per Cuba, per i nostri alleati…
ERNESTO: Manca poco che tu mi dia del trotzkista! Ah, il trotzkismo, pecora nera di Mosca! Ma quando li aprirai gli occhi, Fidel? Continui a fidarti dei sovietici che con la nobile motivazione degli aiuti economici ai paesi socialisti più poveri ci sfruttano!
FIDEL: Ma cosa dici? Se è proprio Mosca che ha adottato con noi il principio del “beneficio reciproco”?
ERNESTO: come si fa a parlare di “beneficio reciproco” quando siamo costretti a vendere le nostre materie prime, prodotte dal sudore e dal sangue del nostro lavoro, al prezzo del mercato mondiale?
FIDEL: Cuba è solo un piccolo paese ai piedi del colosso capitalista! Non siamo noi che possiamo cambiare le regole economiche internazionali!
ERNESTO: E per questo stiamo al gioco del feticcio borghese, il mercato! E ci rendiamo complici dello sfruttamento!
FIDEL: Non c’è altro da fare, sono le leggi della politica!
ERNESTO: Della real-politik!
FIDEL: Sì, se vuoi!
ERNESTO: Cioè della forma più cinica della politica!
FIDEL: Non possiamo essere dei sognatori, Ernesto! Non possiamo cavalcare l’ideale! E tu, con i tuoi attacchi alla politica economica dell’Unione Sovietica, come hai fatto ad Algeri, hai reso più difficili i nostri rapporti con Mosca!
ERNESTO: Ma come ci si può fidare di quelli! Nel ’62 Kruscev installò i missili a Cuba per proteggerci contro i continui attacchi americani, poi si accordò segretamente con Kennedy, senza dirci niente, e li smantellò! Hai dimenticato come cantavano per strada i cubani? “Niquita mariquita, lo que se da no se quita”, “Nikita mamoletta, quel che si dà non si riprende!”
FIDEL: La politica non ha memoria, Ernesto!
ERNESTO: Ma i sovietici continuano a sfruttarci, e questa non è memoria!
FIDEL: Queste sono le tesi dei cinesi!
ERNESTO: È vero! Mi fido più di Pechino che di Mosca!
FIDEL: Cuba ha stretto un’alleanza con Mosca! E la Cina ha dimezzato l’acquisto del nostro zucchero!
ERNESTO: È la conseguenza del nostro allineamento con l’Unione Sovietica!
FIDEL: E con chi avremmo dovuto allearci, secondo te?
ERNESTO: Avremmo dovuto mantenerci neutrali e cambiare i nostri rapporti economici! Non è giusto che la politica dei prezzi sia stabilita dai capitalisti! Bisogna piegarla ad un principio diverso… Quello della fratellanza tra i popoli!
FIDEL: Ancora fumo, Ernesto! Astrazioni! La fratellanza si otterrà solo quando il socialismo avrà trionfato su scala mondiale! Ma questa fratellanza che chiedi ora, ai paesi socialisti sviluppati, è un suicidio economico! La tua avversione per Mosca ti fa disegnare scenari di fantafinanza! (silenzio. Ora Ernesto riprende il gioco con il coltello) Io ho bisogno dei sovietici, Ernesto. Non ho altro mezzo per difendermi dall’embargo americano. (con sforzo, come soffrendo) In questo momento storico, la tua politica terzomondialista e antisovietica può essere… letale per Cuba. (pausa. La tensione si scarica)
ERNESTO: Hai ragione, Fidel. È per questo che me ne vado. (inopinatamente comincia a cantare e anche Fidel risponde cantando. È il “Duetto dello scontro”) Sarà festa, vedrai al Kremlino,
quando sapranno che combatte altrove
il chiacchierone, il “gaucho”, l’argentino!
Io forse accenderò qualche fiammella
Ma tu in guardia, Fidel, non è opportuno
Succhiar latte da un’unica mammella,
FIDEL: (canta) È la sola che ho, non ho più scelta.
ERNESTO: Che sarà, se dovesse inaridirsi?
FIDEL: (canta) Sarà per Cuba morte lenta. O svelta.
ERNESTO: (canta) Ricordi? Un giornoa bbiamo fatto un patto
Quando avessi voluto, avrei potuto
Scioglierlo come un libero contratto.
Non voglio più intralciare il tuo lavoro.
FIDEL: (canta) Dove andrai?
ERNESTO: (canta) In Africa. Nel Congo.
Dai ribelli. Ma non starò con loro.
La Bolivia è la meta, Tania è già lì:
è il nostro agente di collegamento,
studia il paese, scrive, legge Martì.
FIDEL: (canta) Ma la Bolivia non è Cuba, Ernesto!
Non avete l’appoggio del paese
E il PC boliviano è in dissesto!
ERNESTO: (canta) Lo so. Coi peruviani e i boliviani
Creeremo una scuola militare.
FIDEL: (canta) Ti manderò i migliori guerriglieri.
Ma tu dimmi: cos’è che vuoi fuggire?
Vuoi sfidare la morte, è un esorcismo?
O cerchi solo il modo di finire?
ERNESTO: (canta) Non sono un Don Chisciotte fuori moda
Che cavalca di nuovo un Ronzinante. (gioca con il coltellino)
L’America è reale, lì s’annoda
La catena che va dalle “favelas”
Le baracche di Rio e di Bogotà
Ai poveri di Haiti e di Caracas
Ai dittatori di cartone, ai ladri,
ai faccendieri di paesi dove
sono inetti i governi e inetti i quadri
la morte? Non la cerco ma si sa:
in ogni impresa umana va compresa
nel calcolo delle probabilità. (lascia il coltellino. Fidel se lo riprende. Parlato)
Addio, Fidel! Hasta la victoria, sempre!
FIDEL: (lo abbraccia) Addio, Ernesto!
Hasta la victoria, sempre! (guarda il coltellino, poi, controvoglia) Bene, prendilo, è tuo! (Ernesto lo prende ed esce. Fidel, rimasto solo, sembra commosso. Canta, dapprima sommessamente, poi con toni sempre più alti la canzone “Che comandante”, parole adattate dalla poesia del poeta cubano Nicolas Guillen. Canta)
Un cavallo di fuoco
Sostiene la tua scultura guerrigliera
Tra il vento e le nuvole della sierra
Che comandante
Amico
Sei nell’indio fatto di sogno e di rame
Nel negro agitato dalle passioni
Nei banani e nell’albero del pane
Nel the e nel caffè delle piantagioni
Nella canna da zucchero e nel sale
Che comandante
Amico
Cuba ti sa a memoria nella barba
Trasparente, nella pelle avorio e oliva
E nella voce ferma che comanda
Senza per questo voler comandare
Tenera e dura ordina da amica
Che comandante
Amico
Ti vediamo, ministro soldato
Ogni giorno soldato e ministro
Passi col tuo vestito di campagna
Quello che indossavi nella Sierra
E a volte porti al braccio la compagna
Che comandante
Amico
Salve, Che Guevara
Che comandante
Amico.

Undicesima giornata: 6 luglio 1997, l’Avana
11 – Ramòn

Entra Aleidita, la maggiore delle figlie di Aleida e del Che. È interpretata dalla stessa attrice. Musica: in sottofondo una guajira cubana.

ALEDITA: Allora, in quel luglio del 1966, avevo cinque anni. Ero la più grande dei quattro bambini di casa Guevara. Mio padre non c’era, era un segreto, nessuno doveva sapere in quale paese si trovava… La mamma ci diceva sempre: - Fate questo e quest’altro, a vostro padre piacerebbe… oppure non fate questo e quest’altro, a vostro padre non piacerebbe… - Un giorno venne a trovarci un uomo strano, Ramòn era il suo nome. Era spagnolo e diceva d’essere un grande amico di papà. Era alto, calvo, portava dei grossi occhiali. Appena lo vidi gli dissi: - Chico, non mi pari spagnolo, mi pari piuttosto un argentino! – Lui sorrise, sorpreso, e disse: - Perché argentino? – E io: - Non so, così mi sembra. – In camera da pranzo lui si sedette dove sempre si sedeva il mio papà; io glielo feci notare ma lui disse: - È il posto dell’anfitrione. – Dovettero spiegarmi cosa vuol dire “anfitrione”… Finita la cena, mi metto a correre, inciampo, cado. Ramòn mi prende in braccio, mi coccola mi porta in cucina e mi mette del ghiaccio sul bernoccolo. Trovo strano che questo sconosciuto sia così affettuoso con me e dico, piano, alla mamma: Ramòn dev’essere innamorato di me. Ramòn ci regala delle caramelle ma Camilo fa i capricci, vuole anche la mia. Io gliela do e Ramòn mi dice che sono stata brava e che ho fatto un bel gesto, così si devono comportare i figli più grandi. La verità, però, è che a me non piacciono per niente, le caramelle. Prima di uscire, Ramòn parla fitto fitto con la mamma. Appena è uscito la rimprovero: - cosa facevi con quell’uomo che non è il mio papà? – E lei mi dice, triste: - Sciocchina, non l’avevi capito? Era il tuo papà. (Aleidita canta: “La mia nina”)
M’inchino ai gigli rossi
Ai corvi gialloneri
Che volano sui bossi
Di allegri cimiteri
Madreselva odorosa
Colgo con le mie mani
Selvatica è la rosa
Su quei palmeti nani
Ondeggiano le ali
Le alte querce che ho visto
Qui sono cattedrali
Qui dev’esserci Cristo
Per la sua comunione
Porto qui la mia nina
Veste color limone
Sul cappello una pigna.

Dodicesima giornata: 14 giugno 1967 Nancahasù, Bolivia
Tania la guerrigliera

L’idillio della canzone precedente viene bruscamente interrotto dal crepitio di armi da fuoco, dal ronzare degli elicotteri e dal rombo delle cannonate. Siamo nella boscaglia boliviana. Ernesto è seduto in un angolo e scrive su un annuario dalla copertina di pelle rossa il suo “Diario boliviano”. Il Che è lacero e sporco, con la barba incolta. Entra Tania la guerrigliera: è bionda, alta, bella. È in tenuta da campo verdeoliva, ma è stranamente elegante, a contrasto con il Che. Ernesto scatta in piedi, l’abbraccia.

ERNESTO: Tania! Finalmente! (l’abbraccio è lungo e tenero) Lasciati vedere: eccoti qui, sempre linda e sciolta, come a una sfilata di moda guerrigliera...
TANIA: (sorride) E tu come stai? La tua asma di Stato?
ERNESTO: Bah, è un’asma apolide, ormai. Male. Il 14 agosto i soldati dell’esercito boliviano hanno scoperto un nostro deposito di medicinali e di documenti. Qualcuno dei nostri ha parlato. Mi sono rimasti pochi flaconi e il drago, qui nel petto, ne approfitta… Tengo più al mio inalatore che alla mia pistola.
TANIA: Ti procurerò della penicillina, so dove trovarla.
ERNESTO: Ti ringrazio. Ma dimmi di te. Com’è che t’hanno individuata?
TANIA: Anche per me dev’esserci stata una spiata. Hanno ritrovato nella mia stanza d’albergo un nastro con la registrazione di un discorso di Fidel e due cassette di musica cubana… Mi ha fregato il mio amore per la musica. È stato un vero peccato. Mi stavo quasi affezionando alla mia nuova identità. Invece di questo mio nome minaccioso, Tamara Binder Bunker detta Tania, guerrigliera argentina di origine russo-tedesca, amica del pericolo pubblico n° 1, il Che, il mio nome falso e la mia ancor più falsa professione borghese Laurita Gutierrez Bauer, giornalista di moda di un settimanale tedesco, di destra, mi davano un senso di sicurezza e di solidità… (ride con voluta fatuità) Il gioco era riuscito in pieno, m’ero infiltrata nelle alte sfere. Avevo libero ingresso ovunque.
ERNESTO: Perfino dal Presidente Barrientos.
TANIA: Quel porco. Si era innamorato di me. Non ho mai capito se mi faceva più schifo come Presidente reazionario di un paese di pecore o come uomo col naso camuso delle pecore… Puah! (sputa) L’unico bacio che mi ha dato, anzi che gli ho concesso, me lo sente ancora qui sulle labbra… Un viscidume, come baciare una lumaca… Puah!
ERNESTO: Porco, pecora e lumaca. Tre animali per descrivere una bestia... Hai fatto un buon lavoro, Tania. Le informazioni, le provviste, e perfino una jeep. Senza di te le cose andrebbero ancora peggio.
TANIA: Vanno così male?
ERNESTO: Da quando siamo in Bolivia, agosto è stato il mese peggiore. Abbiamo perso due uomini, i documenti e le medicine. Continuiamo a mancare di collegamenti: quel vigliacco di Mario Moje, il capo del Partito Comunista Boliviano, avrebbe dovuto portarci la chiave delle trasmittenti, non l’ha mai fatto. E sai perché? Voleva togliermi il comando operativo per assumere la direzione militare! Lui, un burocrate dell’apparato filosovietico! L’ho mandato a cagare.
TANIA: Hai fatto bene. Non ci può venire niente, da quella parte. In questo paese ci sono due partiti comunisti, uno trazkista e l’altro maoista, e li abbiamo contro tutti e due. D’altra parte è inevitabile, visto che Fidel s’è schierato con l’Unione Sovietica.
ERNESTO: Ieri ho sentito alla radioc he un giornale di Budapest mi definisce un personaggio patetico e irresponsabile, mentre loda il PCB per il realismo... Come mi piacerebbe, Tania, arrivare al potere per smascherare i vigliacchi e i venduti e strofinargli il muso nelle loro merde! Mi fanno schifo, questi teorici della guerra per posta, questi partigiani della violenza per telefono, questi sacerdoti del fuoco metafisico del caminetto! Questa gente piscia controvento, il vento della storia!
TANIA: (ride, vuole calmare la tensione del Che) Voi, invece, pisciate nel serbatoio della jeep... M’hanno detto che siete rimasti senz’acqua in piena boscaglia e allora, per portare la jeep…
ERNESTO: (non può fare a meno di sorridere al ricordo)... ci abbiamo pisciato dentro… Eravamo in sei… (si incupisce) Ma è anche vero che Miguel, Dario e El Chino erano talmente assetati, dopo qualche ora, che l’hanno bevuta, la loro urina. Risultato: diarree e crampi… Se ci metti le zanzare, le terribili zecche della montagna e i ragni, il quadro è completo. La pelle diventa una miseria umana. E il morale è basso, lo spirito combattivo scende a zero. Sai in quanti siamo, adesso?
TANIA: In pochi, credo.
ERNESTO: In ventidue. Contro duemila soldati boliviani addestrati dalla CIA.
TANIA: Le nuove reclute?
ERNESTO: Scarsissime. I boliviani che abbiamo arruolato sono fragili e impreparati. Disertano o si danno malati. Fidel aveva ragione. La Bolivia non è Cuba. I campesinos…
TANIA: … i campesinos hanno simpatia per noi, l’ho visto venendo qui. Ma l’esercito li spia e, al primo sospetto, li fa fuori. Ernesto, non posso vederti in questo stato…
ERNESTO: Dopo il fallimento della mia spedizione in Congo la mia stella ha cominciato a impallidire...
TANIA: Non è vero! Dovunque ti definiscono il “guerrigliero heroico”! Il tuo nome è già un mito!
ERNESTO: Un mito a cui hanno messo il silenzio stampa.
TANIA: Ma non è così! Il processo di Régis Debray, il francese, è su tutti i giornali del mondo! Si è mosso perfino de Grulle per assicurare a Barrientos che si tratta di uno scrittore e non di un terrorista… Sartre è intervenuto contro la repressione dell’esercito boliviano! E qualche giorno fa, a La Paz, è venutoquell’editore italiano, Feltrinelli… è stato arrestato come simpatizzante dei ribelli! Dopo è stato rilasciato, è vero, ma la notizia ha fatto il giro del mondo! Tutto questo ruota intorno al tuo nome!
ERNESTO: Sei ottimista, Tania. La realtà è che Mosca e Washington hanno fatto un patto, dopo l’affare dei missili di Cuba: nessun intervento in America Latina, né da una parte né dall’altra. Neanche Fidel può fare nulla, ha le mani legate. (pausa) Siamo isolati, la nostra è una rivoluzione tradita…
TANIA: (con slancio) No! Il nostro esempio ha aperto le coscienze! I minatori si sono mobilitati e ci danno il loro appoggio! E quando tu hai dichiarato territori liberi alcuni distretti, i minatori si sono ribellati al governo! E in città, a La Paz, ho assistito io stessa alle agitazioni urbane! Ci sono state delle repressioni, ma non è con le repressioni che si vincono le rivolte! E so per certo che sta maturando uno sciopero generale! Barrientos è in difficoltà, c’è chi vuole deporlo, nel governo stesso! Anzi, sai che ti dico? Lo vedo già bollito, Barrientos, con i suoi generali come patatine di contorno!
ERNESTO: (sorride) Non sei cambiata, Tania. Sempre entusiasta. Vitale
TANIA: Ho imparato da te, Ernesto. (pausa) ricordi, quando ci siamo conosciuti, in Germania? Io ti facevo da guida, a Berlino ma tu mi guidavi nella teoria della guerra di guerriglia con una tale passione… che mi è stato… impossibile non seguirti a Cuba. Cuba è diventato il mio grande amore, ma l’Argentina… muoio dalla voglia di tornarci. È lì che sono nata, è lì che ho studiato, è lì che ho giocato con le mie amichette… Ora è primavera, a Buenos Aires, e l’aria si riempie dei tanghi di Carlo Gardèl… Pensi che ci torneremo, un giorno, nella nostra Argentina?
ERNESTO: Non lo so. (pausa) Abbiamo bisogno di rinforzi, Tania. Dovresti effettuare un collegamento con Harry “Pombo” Villegas.
TANIA: Quando?
ERNESTO: Domani.
TANIA: Sarà fatto, Comandante. Ma…
ERNESTO: Gli ordini non si discutono.
TANIA: Non è al Comandante che faccio una domanda, è al “Che”. Questa missione… non è un pretesto per allontanarmi dalla zona calda?
ERNESTO: No. Te l’ho detto. Siamo solo in ventidue. E poi, sai bene che non ho mai fatto differenza tra un guerrigliero e una guerrigliera.
(Esce. Tania prende la chitarra. Suona e canta una “Samba argentina” sul modello della “Felipe Varala” di Coco Peredo. La canzone si chiama “I coglioni della speranza”. Via via che Tania canta, i guerriglieri Tamayo, Coco Peredo, El Chino e altri vengono intorno al fuoco rosso dell’accampamento e cominciano a danzare sull’aria della “samba”)
TANIA: Ieri è stato Bolivàr
Che insieme a San Martìn
Liberarono el pueblo
Ma oggi tocca al “Che”
Abbiamo barbe nere
Fucili sorpassati
Uniformi spaiate
Siamo i coglioni
Della speranza
Detonazioni
Il Che ci ha l’asma
Abbiamo armi in pugno
La vita conta un cazzo
E Che Guevara è pazzo
Siamo i coglioni
Della speranza
Detonazioni
Il Che ci ha l’asma
Pellescura, meticci
Sfottuti in questa guerra
E tutto il mondo è Sierra
Siamo i coglioni
Della speranza
Detonazioni
Il Che ci ha l’asma
Paludi i nostri letti
Farfalle i nostri pasti
Giorni buoni e nefasti
Siamo i coglioni
Della speranza
Detonazioni
Il Che ci ha l’asma.
(Il momento musicale viene interrotto dagli scoppi di armi da fuoco. Tania e i guerriglieri si disperdono rapidamente).

Tredicesima giornata: 5 ottobre 1967 Bolivia, Vallone detto Quebrada del Yuro
L’agguato

Sera. I fumi della nebbia nel vallone. Luce bluastra, arrossata dal tramonto. Il Che parla ai soldati: Tamayo, Villegas “Pombo”, El Chino, pochi altri

ERNESTO: Compagni: Tania, la migliore guerrigliera del mondo, è caduta in un’imboscata. Era in missione per noi, l’hanno colpita mentre attraversava il Rio Grande. È un duro colpo per la nostra lotta. In piedi, compagni! (tutti in piedi per alcuni secondi, mentre in sottofondo, leggera, echeggia la canzone cantata da Tania) Questa mattina la radio ha dato la notizia che Barrientos ha assistito all’inumazione dei suoi resti. (tutti si risiedono. Mentre Ernesto continua a parlare, a bocca chiusa, i guerriglieri mugolano il coro di “Guantanamera”) Io… ho già passato i 39 anni. Si avvicina, inesorabile, un’età che mi dà da pensare, sul mio futuro di guerrigliero. Ma al momento sto bene, asma o non asma. (pausa) Vediamo dunque la nostra situazione. Il momento è difficile. Domani sarà il giorno della verità. Ci troviamo qui, in questo profondo canalone, il Yoro. È una specie di anfora con due bocche, cioè due uscite. La nostra colonna è divisa in due gruppi, quello dei sani e quello dei feriti. Io passerò di qui con il gruppo degli invalidi: è il percorso più facile ma è anche il più esposto al fuoco dei soldati governativi. “Pombo” dirigerà i sani all’altra uscita. È una via molto accidentata, i malati non ce la farebbero mai a mettersi in salvo da lì. Abbiamo qualche possibilità di venirne fuori ancora una volta: vediamo come. Se ci attaccano tra le 10 del mattino e l’una del pomeriggio, probabilmente siamo sfottuti. Se ci attaccano tra l’una e le 3, possiamo salvare la buccia. Se ci attaccano dopo le 3, non ci beccano più. Il sole scende presto tra questi monti e la notte, si sa, è da semrpe alleata dei guerriglieri. (i guerriglieri si dispongono in varie posizioni. Ernesto è di vedetta, su un’altura. Scrive il suo diario; smette di scrivere quando la luce trasecola e si incupisce)
POMBO: Sono il capitano Harry Villegas, nome di battaglia “Pombo”. Sono uno dei sei sopravvissuti della spedizione boliviana. (canta “L’agguato”, sorta di filastrocca popolare)
Quella mattina, alle dieci e passa
Ho capito Ernesto c’ha ragione.
La sua analisi è giusta, dannazione!
L’esercito è li e il boliviano
Sta per lasciare il capo… quando a terra
Vede un sigaro acceso, un mozzicone.
Cambia il comando e quindi, dannazione!
Si scontra con Ernesto e col suo gruppo.
Il Che copre il ritiro dei feriti.
Lo beccano al polpaccio, nel vallone:
Con gli altri è catturato, dannazione!
Ma noi, della colonna dei più sani
Rotti gli accerchiamenti boliviani
Fuggiamo via inseguiti dai soldati
Fino alle Ande, laceri e braccati.
A piedi nudi i monti valichiamo
Poi nel Cile vicino ripariamo.
Ed ecco Allende, il futuro Presidente:
dopo averci aiutati e riforniti
a Cuba ci riporta, via Tahiti…
ma il Che non c’è. Il corpo è a Valle Grande:
e a Cuba, per l’identificazione
rimandano le mani: s, le mani,
soltanto le sue mani, dannazione!
Il Che è nella storia e li starà.
Ma a ciò che so il Che ce l’ha la CIA
Dannazione!

Quattordicesima giornata: alba del 9 ottobre 1967, La Higuera, Bolivia
Spara, coglione!

È in scena il capitano boliviano Gary Prado. Aspetta, vicino a un telefono da campo. È nervoso, eccitato, fuma in continuazione. Finalmente squilla il telefono

PRADO: Signorsì, colonnello. Confermo. Il bandito catturato ieri alle 15, Ramòn Benitez, è in realtà Ernesto Guerava detto “El Che”... Sissignore… È ferito. No, non è grave… Come? Dobbiamo passarlo per le armi?... Ma… Ah, ho capito. Come se l’avessimo colpito a morte in combattimento. Claro. Signorsì. Eseguirò. Sissignore… sissignore… Agli ordini. (Prado si gratta la testa, perplesso. Passeggia in su e giù, non sa che fare. Chiama) Sergente Teràn! Sergente Teràn! (entra il sergente Teràn. È poco più di un contadino)
TERAN: Presente!
PRADO: Come sta il prigioniero?
TERAN: Non si lamenta per la ferita alla gamba. Dice che ha male qua… (indica il petto)
PRADO: Sai chi è?
TERAN: Signorsì. È il signor Ramòn Benitez.
PRADO: Bestia. È Che Guevara.
TERAN: Che… Guevara? Il comandante?
PRADO: Sì, il Comandante del mio cazzo... Sergente!
TERAN: Allora ordini, Capitano!
PRADO: Il Colonnello Joaquin Zenteno Anaya ha avuto disposizioni dal Presidente Barrientos. In accordo con il Presidente degli Stati Uniti, Johnson, hanno deciso di… giustiziare Ernesto Che Guevana.
TERAN: Giustiziare...?
PRADO: Giustiziare, bestia, eliminare! Sparargli! Capito?
TERAN: Signorsì!
PRADO: E allora?
TERAN: Allora cosa, Capitano?
PRADO: Diocristo, ma non capisci niente, tu! Chi deve sparargli?
TERAN: Chi deve sparargli?
PRADO: Tu, zuccone! Tu!
TERAN: Io...? (pausa) Signorsì. (pausa) Quando?
PRADO: Come, quando? Subito, prima possibile, ora, insomma!
TERAN: Signorsì. Con la pistola?
PRADO: No. Con il mitra. Come se l’avessimo ferito lì, ieri sera, a La Huerta de Aguilar. Capito?
TERAN: Signorsì. (Prado esce. Teràn indugia, poi decide. Esce. Rientra con Ernesto. Lo sorregge e l’aiuta a sedersi sulla branda da campo. Lo lascia solo. Ernesto canta “Lettera ai figli”)
Cari figlioli miei, se un giorno
Sarà perché non ci sarò più
Non potrò più fare ritorno.
Nel mio paese, dove si dice
Ciò che non si fa e poi si fa
Ciò che non si dice, sono stato
Solo un’araba fenice.
Io ho fatto quello che ho detto
E ho detto quello che ho pensato
Così vissi
Hildita, Camilo, Aleidita
Celia, Ernestito, figlioli miei
Studiate, perché con lo studio
Si vince sempre nella vita
Se salire su l’indignazione
Dentro di voi vi sentirete
Per ogni ingiustizia, siete pronti
A far(e) la rivoluzione
Io ho fatto quello che ho detto
E ho detto quello che ho pensato
Così vissi
(Alla fine della canzone rientra Teràn).
TERAN: Come si sente, adesso?
ERNESTO: Male. È l’asma. Sono senza medicine. Né adrenalina né penicillina.
TERAN: Penso che… la porteranno in ospedale, lì sarà curato
ERNESTO: Dammi del tu, sergente. E non ti preoccupare. Tu devi solo eseguire degli ordini, ti capisco.
TERAN: Posso farle… farti una domanda? Tu sei… il Comandante Guevara. Un pezzo grosso, un Ministro, m’hanno detto. Chi te l’ha fatto fare a ficcarti in questo guaio?
ERNESTO: (tenta di sorridere) Quanti libri hai letto, sergente?
TERAN: Quand’ero a scuola, alle “lementari”, quelli della maestra.
ERNESTO: E poi?
TERAN: Basta. Faccio il soldato, non il professore.
ERNESTO: È per questo che non sei libero. Più libri, più liberi. Il governo ti sfrutta: approfitta della tua ignoranza e ti sottopaga. E la gente? Non la vedi la gente intorno a te, com’è povera?
TERAN: Sì che la vedo. Ma io che ci posso fare?
ERNESTO: A Cuba sono passati con noi non solo i contadini, ma anche i soldati governativi. E sai perché?
TERAN: No.
ERNESTO: Perché volevano essere liberi, volevano combattere contro gli americani che sfruttavano Cubam come sfruttano la Bolivia. Capisci?
TERAN: Sì. Ma gli americani sono ricchi. Ricchi e liberi.
ERNESTO: Sai come vivono i negri e i chicanos, negli Stati Uniti…? (si agita, sofferente. Batte i denti. Il soldato gli dà una coperta)
TERAN: Vuoi una sigaretta?
ERNESTO: Sì, grazie. Come ti chiami, sergente?
TERAN: Mario Teràn, Comandante. Ho sentito che non fate del male ai nostri, quando li fate prigionieri. È vero?
ERNESTO: È vero. Voi non avete colpa. Siete fratelli. (Teràn è imbarazzato. Si gingilla con il mitra. Ernesto capisce) Avanti,cosa aspetti?
TERAN: Ho avuto l’ordine…
ERNESTO: L’ho capito, sergente. Avanti!
TERAN: Non mi guardare, ti prego…
ERNESTO: Spara, coglione! Spara! Chiudi gli occhi e spara!
(Teràn chiude gli occhi. Spara una raffica di mitra. Il Che cade riverso sulla branda, morto. Il Che giace sul lettino come il Cristo del Mantenga. Il sergente riapre gli occhi, lo guarda. Ernesto ha gli occhi aperti)
TERAN: Che strano… gli occhi… gli sono diventati azzurri.
(Entrano tutti gli attori. Muti, come per un rito funebre. Sono in controluce. Sale lentamente il coro della canzone “Che Comandante”)
Un cavallo di fuoco
Sostiene la tua scultura guerrigliera
Tra il vento e le nuvole della Sierra
Che comandante
Amico
Sei nell’indio fatto di sogno e di rame
Nel negro agitato dalle passioni
Nei banani e nell’albero del pane
Nel the e nel caffè delle piantagioni
Nella canna da zucchero e nel sale
Cuba ti sa a memoria nella barba
Trasparente, nella pelle avorio e oliva
E nella voce ferma che comanda
Senza per questo voler comandare
Tenera e dura ordina da amica
Che comandante
Amico
Ti vendiamo, ministro soldato
Ogni giorno soldato e ministro
Passi col tuo vestito di campagna
Quello che indossavi nella Sierra
E a volte porti il braccio la compagna
Che comandante
Amico
Salve, Che Guevara
Che comandante
Amico.


FINE

 
 
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